martedì 14 marzo 2017

LAVORO: L’ASSENTEISMO STRISCIANTE DEI LAVORATORI NEGLIGENTI


I lavoratori infedeli di cui ci racconta, ancora quotidianamente, la cronaca, sono generalmente gli assenteisti, i cosiddetti furbetti del cartellino, che, o autonomamente o attraverso colleghi complici, timbrano il cartellino per poi assentarsi del tutto dal lavoro e dedicarsi agli affari propri. Ma, certamente non è meno infedele e più produttivo il lavoratore che, pur presente sul posto di lavoro, consapevolmente ed in maniera del tutto ingiustificata si sottrae alla prestazione lavorativa, contravvenendo agli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà che sovrintendono il rapporto di lavoro. Basti pensare ai casi in cui, attraverso comportamenti espliciti o semplicemente inerti, il lavoratore non compie le attività proprie della funzione ricoperta o quelle affidategli dal superiore gerarchico, denotando così un comportamento volutamente di scarsa collaborazione o addirittura di contrasto con le direttive aziendali, in aperta insubordinazione. Che può fare in questi casi il datore di lavoro?
 
PARTIAMO DA UN PRESUPPOSTO FONDAMENTALE Ai sensi dell’art. 2104 del codice civile, il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa e deve altresì osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali dipende gerarchicamente. Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina, inoltre, l’obbligo della diligenza si sostanzia non solo nell’esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico), ma anche nell’esecuzione dei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione. Tale obbligo di diligenza va, però, a braccetto e si completa con un altro obbligo, quello di fedeltà, di cui al successivo art. 2105 del codice civile. Esso si sostanzia nell’obbligo per il lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del datore di lavoro ed è direttamente collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. In base ad esso, quindi, il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 cod. civ. (cioè, divieto di concorrenza ed obbligo di riservatezza), ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso (ex plurimis, Cass. 8/7/2009 n. 16000, Cass. 10/12/2008 n. 29008, Cass. 3/11/1995 n. 11437).

DALLA SINTESI DEGLI OBBLIGHI discende l’obbligo di obbedienza, che costituisce un aspetto fondamentale della subordinazione e deriva dal diritto, riconosciuto contrattualmente al datore di lavoro, di determinare in concreto la destinazione delle energie lavorative che il prestatore è tenuto a fornire nonché di determinare le norme tecnico-organizzative alle quali il lavoratore deve attenersi per adempiere alla sua prestazione. È evidente, pertanto, che l’inosservanza di tutti questi obblighi, normativamente sanciti, va innanzi tutto ad intaccare il sinallagma, vale a dire la reciprocità di obbligazioni, su cui si fonda il rapporto lavorativo (cioè, retribuzione versus prestazione lavorativa), nella misura in cui determinerà una, sia pur parziale, mancata prestazione lavorativa. Ma non solo. Nei casi più gravi, infatti, può configurare la giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., qualora il fatto integri gli estremi di un notevole inadempimento ai doveri contrattuali, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, che è fondante per il rapporto di lavoro, e tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro. La nozione di giusta causa, infatti, non si limita solo all’ipotesi di rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma comprende anche qualsiasi altro comportamento (attivo o passivo) atto a pregiudicare non solo l’esecuzione e il corretto svolgimento delle disposizioni dei superiori nel quadro dell’organizzazione aziendale, ma anche ad arrecare un pregiudizio al datore di lavoro (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza del 08/07/2015, n. 14273).

MA IL LICENZIAMENTO NON È COSÌ AUTOMATICO Secondo la Corte di Cassazione, infatti, una volta che la condotta tenuta dal lavoratore viene riferita all’ipotesi della giusta causa, nel senso sopra precisato, bisognerà apprezzarne in concreto la sua gravità, essendo pur sempre necessario che essa rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la stessa con riguardo alla futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all’adempimento dei suoi obblighi (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza del 09/02/2017, n. 3484).

CONCLUDENDO come spesso accade, si può aprire tutto un mondo valutativo, in cui purtroppo possono giocare un ruolo decisivo da un lato la sensibilità di chi viene chiamato a decidere il caso concreto e dall’altro il contesto sociale e lavorativo in cui la valutazione si inquadra e si riferisce.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando