venerdì 26 gennaio 2018

LAVORO: LICENZIAMENTO VIA WHATSAPP, IL DIRITTO ALLA PROVA DIGITALE


Quante volte ci siamo detti che il diritto è obsoleto, non tiene conto dell’evolversi della società e soprattutto dei nuovi mezzi tecnologici? Eppure, ogni volta che viene apportata una novità, in relazione ai mutati costumi sociali, questa suscita un certo scalpore. Così è stato per una serie di sentenze che hanno aperto la strada alla legittimità del licenziamento intimato via sms. Tema quanto mai attuale ma che genera un insieme di interrogativi e problematiche. Non dimentichiamo che i contenuti che entrano in rete sono, ahimè, esposti a diversi rischi, quali furto, alterazione e addirittura manipolazione. Ciò nonostante i giudici di alcuni Tribunali, a più riprese, hanno uniformemente attribuito valore giuridico al licenziamento effettuato tramite chat o altri media digitali. Vediamo perché …


FORMA SCRITTA, ANCHE SENZA RACCOMANDATA La Legge n. 604/1996, all’art. 2 si limita a precisare che la comunicazione, da parte del datore di lavoro, del licenziamento deve avvenire per iscritto, senza analizzare nello specifico le modalità che possono essere adoperate. La Cassazione, ha affermato a più riprese, che non sussiste, in capo al datore di lavoro, “l’onere di adoperare formule sacramentali, potendo, la volontà di licenziare essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta purché chiara (Cassazione civile n. 6447/2009; Cassazione civile n. 17652/2007). Tuttavia, negli anni successivi a tali pronunce, alcuni tribunali che si erano occupati del tema avevano escluso che un sms potesse essere considerato come mezzo idoneo in quanto non garantisce certezza circa l’autore effettivo dell’atto e della data di ricezione e di invio. Ad esempio, il Tribunale di Bari nel 2014 lo aveva equiparato al licenziamento in forma orale.

IL DIGITALE FA INGRESSO IN TRIBUNALE La Corte d’Appello di Firenze, si apre invece a quella corrente innovativa per cui il licenziamento tramite sms può essere equiparato al licenziamento intimato tramite raccomandata o via mail. A conferma di ciò, la Corte ha preso in considerazione il fatto che il lavoratore non ha disconosciuto la provenienza del messaggio impugnando difatti il licenziamento, ma ne ha contestato esclusivamente le modalità e la mancanza di motivazione (Corte d’Appello di Firenze, Sentenza del 5 luglio 2016, n. 629). La stessa scia è stata seguita nel 2017 dal Tribunale di Catania, il quale si è spinto a considerare integrato il requisito della forma scritta anche nel caso in cui si tratti di un messaggio via whatsapp, purché da tal messaggio la volontà del datore di lavoro risulti univoca (Tribunale Catania, Sezione II Civile – Lavoro, Ordinanza del 27 giugno 2017).

TUTTAVIA, IL MESSAGGIO DEVE AVERE DETERMINATI REQUISITI… Nel caso affrontato dai giudici siciliani il messaggio via Whatsapp, attraverso cui si è intimato il licenziamento, è stato ritenuto valido, legittimo ed efficace in quanto era idoneo a identificare, da un lato, il mittente (datore di lavoro) e, dall’altro lato, il destinatario (lavoratore). Oltre a ciò è stato ritenuto idoneo in quanto fornisce inconfutabilmente la prova, al pari di una PEC, dell’avvenuto invio e ricezione del messaggio, quanto dell’avvenuta lettura dello stesso: come noto ai più, le doppie spunte grigie indicano l’effettiva ricezione del messaggio, le doppie spunte blu l’effettiva lettura dello stesso. Al datore di lavoro basterà, dunque, produrre lo screenshot delle due spunte grigie per dimostrare la ricezione e quello delle spunte blu per dare prova dell’avvenuta lettura. È stato, infine ritenuto, efficace in quanto è in grado di individuare con precisione data ed orario di invio, ricezione e lettura.

…E IL CONCETTO DI INDIRIZZO SI ALLARGA La Legge dice che qualora lo scritto, venga indirizzato al lavoratore in altro modo e in altro luogo, esso si considera conosciuto “nel momento in cui giunga all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia” (art. 1335 Cod. Civ.). La giurisprudenza ha dunque interpretato in modo piuttosto elastico il concetto di indirizzo, che non deve necessariamente coincidere con la residenza anagrafica, ma può essere individuato anche nel domicilio, nella dimora o comunque nel luogo di normale frequenza. Ecco perché il messaggio in chat ricevuto, per esempio, mentre si è al bar o dal parrucchiere è considerato perfettamente valido ed efficace e a nulla può valere l’eccezione del lavoratore che contesta la ricezione in un luogo diverso da quello della sua residenza, domicilio o dimora abituale. 

IN CONCLUSIONE Qualche perplessità resta. Si pensi ad esempio alla circostanza per la quale il telefono venga utilizzato da un soggetto terzo, diverso dal lavoratore, che maneggiandolo dia per assodata la ricezione e la lettura. Resta il fatto della conoscenza, incontestabile laddove il lavoratore abbia impugnato il licenziamento. A mio avviso, tuttavia, alcune questioni restano aperte, e vedremo come i giudici le affronteranno. Potremo, quindi, effettivamente dire addio alle raccomandate? 


Dottoressa Cristina Falcone – Studio Comite