Nei giorni scorsi, alcuni quotidiani di informazione hanno pubblicato una notizia che mi ha lasciata sgomenta. Non riuscivo a credere a ciò che leggevo e, quindi, ho cercato di approfondire e acquisire maggiori dettagli per tentare di comprendere i criteri giuridici sulla base dei quali i giudici, di merito e di legittimità, sono giunti ad una conferma di assoluzione per tutti i soggetti coinvolti. Stranamente, peraltro, ho riscontrato che le decisioni in parola non erano disponibili né sulle banche dati più conosciute né, come spesso accade, sul web. In effetti, il caso in questione non ha avuto grande risonanza mediatica ed anzi, ad eccezione di qualche testata giornalistica e personaggio famoso (Dario Fo) che ha abbracciato la causa della vittima, una madre disperata che ha perso un bimbo di otto anni, assassinato dal padre notoriamente violento, ho avuto la sensazione che non vi fosse interesse a coltivare la diffusione dei contenuti legati a questa notizia. Il tema attorno a cui ruota questa terribile vicenda è la denuncia di condotte violente perpetrate dall’ex compagno nei confronti di una donna (violenza di genere, all’interno delle mura domestiche) e, di riflesso, quella assistita indirettamente, dal figlioletto di entrambi. Durante uno degli incontri protetti tra il padre ed il bimbo, organizzati dal servizio sociale, operativo presso il comune di San Donato, paesino dell’hinterland milanese, il padre ha ucciso il piccolo, di appena otto anni, sparandogli un colpo d’arma da fuoco e sferrandogli ben trenta coltellate. Immagino che, com’è stato per me, vi starete chiedendo come sia potuto accadere tutto ciò in un ambito che, per definizione, doveva essere “protetto” …