sabato 4 aprile 2015

SERVIZI SOCIALI: INCONTRI PROTETTI CHE NON HANNO PROTETTO NESSUNO


Nei giorni scorsi, alcuni quotidiani di informazione hanno pubblicato una notizia che mi ha lasciata sgomenta. Non riuscivo a credere a ciò che leggevo e, quindi, ho cercato di approfondire e acquisire maggiori dettagli per tentare di comprendere i criteri giuridici sulla base dei quali i giudici, di merito e di legittimità, sono giunti ad una conferma di assoluzione per tutti i soggetti coinvolti. Stranamente, peraltro, ho riscontrato che le decisioni in parola non erano disponibili né sulle banche dati più conosciute né, come spesso accade, sul web. In effetti, il caso in questione non ha avuto grande risonanza mediatica ed anzi, ad eccezione di qualche testata giornalistica e personaggio famoso (Dario Fo) che ha abbracciato la causa della vittima, una madre disperata che ha perso un bimbo di otto anni, assassinato dal padre notoriamente violento, ho avuto la sensazione che non vi fosse interesse a coltivare la diffusione dei contenuti legati a questa notizia. Il tema attorno a cui ruota questa terribile vicenda è la denuncia di condotte violente perpetrate dall’ex compagno nei confronti di una donna (violenza di genere, all’interno delle mura domestiche) e, di riflesso, quella assistita indirettamente, dal figlioletto di entrambi. Durante uno degli incontri protetti tra il padre ed il bimbo, organizzati dal servizio sociale, operativo presso il comune di San Donato, paesino dell’hinterland milanese, il padre ha ucciso il piccolo, di appena otto anni, sparandogli un colpo d’arma da fuoco e sferrandogli ben trenta coltellate. Immagino che, com’è stato per me, vi starete chiedendo come sia potuto accadere tutto ciò in un ambito che, per definizione, doveva essere “protetto” … 

LE TAPPE DI QUESTA ORRIBILE VICENDA Premetto con l’evidenziare che quanto accaduto è un fatto isolato che fortunatamente non ha precedenti, quanto meno noti. Ciò, d’altra parte, non rende meno grave e doloroso l’epilogo di questa storia. Il 25 febbraio del 2009, Federico Barakat, alla tenera età di otto anni, è stato ucciso dal padre all’interno dei locali del servizio sociale ove si tenevano gli incontri protetti, disposti dal Tribunale per i Minorenni, finalizzati al riavvicinamento alla figura paterna con modalità controllata. La madre del piccolo, Antonella Penati, aveva denunciato più volte il padre per violenze, minacce e stalking e, su consiglio degli stessi carabinieri cui tante volte si era appoggiata per essere tutelata, si era rivolta ai giudici per ottenere l’affidamento esclusivo di Federico e l’allontanamento dal padre, drogato e con personalità disturbata. Il Tribunale, “per la tutela dello sviluppo del minore e del suo bisogno di crescita”, non ritenne, tuttavia, di prendere in considerazione le richieste della madre, affidando, anzi, l’esercizio della potestà genitoriale ai servizi sociali di San Donato Milanese, “nel tentativo di garantire un recupero ed un sereno svolgimento del rapporto tra genitore e figlio”. 

UN VANO TENTATIVO Il Tribunale, dunque, su indicazione degli operatori sociali (psicologi ed educatori) del medesimo servizio, cui erano state demandate le indagini psicodiagnostiche sul nucleo familiare, ha messo sullo stesso piano un padre notoriamente violento e minaccioso ed una madre tutelante che ha cercato, a più riprese, chiedendo il sostegno delle autorità, di salvare se stessa ed il piccolo Federico. Purtroppo, il suo tentativo è risultato vano, forse, per la superficialità di chi avrebbe dovuto valorizzare il vissuto della vittima maltrattata a scapito del proprio carnefice. Federico, durante uno degli incontri programmati per il riavvicinamento alla figura paterna, della cui relazione avrebbe dovuto godere “per la tutela del suo sviluppo”, lasciato solo, senza l’educatore che avrebbe dovuto assistere a tale incontro, è stato massacrato dal padre che dapprima lo ha accoltellato ripetutamente e, poi, lo ha finito con un colpo d’arma da fuoco, togliendosi infine la vita. Il medico legale che ha effettuato l’esame del corpicino di Federico ha detto che le ferite riportate sono il segno del fatto che il bimbo si è disperatamente difeso con tutte le sue forze e che la sua agonia è durata quasi un’ora. Un tempo troppo lungo … 

NESSUNA RESPONSABILITÀ PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Antonella Penati ha, quindi, intrapreso una battaglia legale soffertissima affinché venisse riconosciuta la responsabilità penale degli operatori sociali per le omissioni legate al loro ufficio. Anche in questo caso, tuttavia, i suoi tentativi sono risultati vani. I dipendenti della pubblica amministrazione non hanno colpe e quanto accaduto risponde ad una tragica fatalità. Questo è quanto, sostanzialmente, emerge dalle sentenze emesse dai giudici penali nell’ambito dei processi di primo e secondo grado che si sono recitati nei confronti di psicologi ed educatori del servizio in questione. Alla fine del mese di gennaio, anche la Suprema Corte ha ribadito la correttezza delle decisioni di merito ed, anzi, ha annullato l’unica condanna che era stata timidamente pronunciata. Qualche giorno fa sono state depositate anche le motivazioni di tale sentenza. In sintesi, pare proprio che le prove acquisite non siano state sufficienti per superare il giudizio di colpevolezza, oltre ogni ragionevole dubbio, e quindi, è stata pronunciata l’assoluzione piena

GESTIRE IL CONFLITTO O PROTEGGERE LE VITTIME? Purtroppo, non avendo la disponibilità della sentenza emessa dalla Cassazione penale non sono in grado né di fornire chiarimenti né, naturalmente, di esprimere giudizi tecnici. Immagino, tuttavia, che il punto attorno al quale è stato fondato il convincimento di non colpevolezza sia stato quello per il quale il servizio sociale è stato investito del compito di gestire la conflittualità della coppia e non quello di proteggere e tutelare un soggetto debole da un padre maltrattante (ahimè!). Tale presupposto ha fatto sì che gli operatori modulassero la loro attività, e il grado di controllo, sulla gestione di tale conflitto familiare e non sulla tutela del minore rispetto ad un papà violento. In altre parole hanno preso in carico la questione nei limiti di ciò che il Tribunale aveva segnalato loro e, dunque, non sono state adottate quelle cautele particolari che avrebbero richiesto un controllo più serrato. 

MADRE MALEVOLA O VIOLENZA NON RICONOSCIUTA? Può essere che il punto di vista, prettamente giuridico, dei giudici che hanno preso in esame la vicenda sia corretto. Ciò di cui mi dispiaccio, d’altra parte, è la circostanza per la quale, come accaduto in casi molto simili, anche se con epiloghi meno drammatici ma ugualmente dolorosi per la sofferenza interiore che ne è scaturita, gli operatori del servizio sociale non siano stati all’altezza di comprendere, ed è in questo che a mio avviso va ravvisata la negligenza, quanto meno su un piano civilistico, che non si trovavano di fronte ad una “madre malevola”. La tragedia che ne è scaturita è il segno che Antonella Penati non tentava di alienare la figura genitoriale paterna ma era piuttosto una delle tante vittime della violenza di genere (quella dell’uomo padrone nei confronti della donna che riconosce solo nella veste di schiava da sottomettere) o domestica che reclamava tutela per se stessa e per lo spettatore indiretto dei maltrattamenti subiti. 

I PROTOCOLLI NON FUNZIONANO SEMPRE… Insomma, la catalogazione dei casi entro uno schema tipico spesso diventa una sorta di protocollo per il quale il genitore che contesta una condotta maltrattante e domanda tutela in realtà serberebbe sempre nell’animo rancori non metabolizzati che lo indurrebbero a tenere un comportamento finalizzato all’allontanamento, e quindi alienante, rispetto all’altro. Purtroppo, nei fatti tale schema ha dimostrato di non essere applicabile alla generalità dei casi. Ogni storia è una vicenda a sé e quella di Antonella e Federico trasuda sofferenza e terrore, è espressione di un approccio superficiale ed eccessivamente protocollato che ha portato le vittime a rivivere il proprio dramma, amplificandolo senza possibilità che potesse essere contenuto e compreso. In sintesi è stata imposta ad Antonella, sotto la minaccia della possibilità di collocamento del minore in una casa famiglia, una mediazione che, nei casi di violenza come quella da lei vissuta, non poteva e non doveva essere indicata e prescritta. Era, anzi, auspicabile un allontanamento dalla figura paterna per i segnali di disagio che Federico aveva manifestato e che, a dire degli specialisti del centro, erano la conseguenza del disegno materno di voler escludere il padre dalla vita del figlio.  

VIOLENZA ASSISTITA DIRETTAMENTE O INDIRETTAMENTE La violenza assistita da Federico consiste nel fatto che il piccolo sia stato costretto ad assistere alle violenze fisiche verbali e psicologiche del padre nei confronti della madre. In termini generali, peraltro, tale forma di violenza, per così assistita, può essere diretta, laddove i minori siano presenti personalmente a tali episodi, o indiretta nelle ipotesi in cui pur non essendo presenti ne sono messi a conoscenza o ne percepiscono gli effetti negativi. In entrambi i casi le conseguenze sono gravi e incidono in modo pesante sul loro equilibrato sviluppo psico-fisico: spesso si sentono in colpa, e comunque, impotenti ed incapaci di intervenire. Interessante, in proposito, una recente sentenza della Suprema Corte che ha ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti in famiglia non solo con riguardo a fatti commissivi ma anche in relazione alle omissioni connotate da una deliberata indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della “persona debole” da tutelare; in altre parole ciò significa che un soggetto si rende colpevole del reato di maltrattamenti anche verso i minori tutte le volte in cui è responsabile del clima di violenza che si respira all’interno della famiglia, pur non ponendo in essere episodi di maltrattamento diretto, laddove ciò sia un connotato tipico della vita quotidiana insieme alla volontà di trascurare i bisogni affettivi ed esistenziali dei piccoli, “sistematici spettatori obbligati” (Cassazione penale, Sezione VI, Sentenza del 29 gennaio 2015, n. 4332).


LA BATTAGLIA CONTINUA Qualche giorno fa, Antonella Penati, ha quindi annunciato insieme al suo legale, Federico Sinicato, che andrà avanti con la sua battaglia davanti alla Corte dei diritti umani di Strasburgo poiché ritiene fermamente che l’Italia, in violazione dell’art. 31 della Convenzione europea contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dal nostro Paese nel 2013, non abbia adottato misure legislative o di altro tipo idonee a garantire che l’esercizio del diritto di visita o di custodia non compromettesse la sicurezza delle vittime di maltrattamento o dei bambini che vi assistono. In altre parole ciò che Antonella Penati vorrebbe, giustamente, che venisse riconosciuto è che il diritto di visita di un genitore, pur in nome di un principio nobile come è quello della bigenitorialità, non possa in alcun modo sovrastare il diritto all’integrità fisica e psichica dei bambini. Come non esserle vicina?

Avvocato Patrizia Comite - Studio Comite