lunedì 2 maggio 2016

IDENTIFICARE UNA PERSONA CON UN ESCREMENTO PUÒ ESSERE SATIRA


A poche settimane dal post in cui mi soffermavo sul delicato e sottile confine tra diritto di cronaca o critica e diffamazione a mezzo stampa, ecco che una sentenza della Corte di Cassazione mi dà l’occasione di ritornare sull’argomento, seppure sotto un diverso profilo, quello della satira. Questa volta, peraltro, entrambi i protagonisti della vicenda esaminata dai giudici di legittimità appartengono al mondo del giornalismo. Da un lato, infatti, c’è un giornalista (poi dimessosi dall’Albo), di cui si era scoperto il coinvolgimento con i servizi segreti. E, dall’altro, c’è un giornalista appartenente ad un famoso gruppo editoriale italiano che, nel commentare la vicenda del primo (somigliante per un lettore all’analoga vicenda di Hemingway spia per il Dipartimento di Stato), aveva utilizzato una battuta del comico milanese Gino Bramieri che invitava, in uno dei suoi sketch, a non “confondere il risotto con la merda”. Da qui, la vicenda processuale tra i due, risolta in maniera diametralmente opposta in primo e in secondo grado, fino ad arrivare alla Cassazione che ha visto, nella pur colorita espressione, solo esercizio del diritto di satira. Vediamo in che modo…


LEDE L’ONORE E LA REPUTAZIONE! Per il soggetto irriso, l’utilizzo di termini che parlano di escrementi e che per ciò stesso sono osceni e volgari, oltre ad essere in ogni caso ingiustificabile, sostanzia un insulto gratuito ed un’aggressione diretta nei confronti della persona a cui essi vengono rivolti, attribuendole di fatto l’epiteto di escremento e distruggendone l’onore e la reputazione. Insomma, viola i principi fondamentali del rispetto della dignità umana e del rispetto sociale minimo e reciproco delle persone, indipendentemente dall’evoluzione linguistica che nel tempo possano aver subito detti termini. E infatti, in primo grado, tali valutazioni erano state condivise dal giudice, che aveva condannato il gruppo editoriale al risarcimento danni non patrimoniali patiti dal soggetto irriso. D’altronde, a siffatte argomentazioni e conclusioni era già giunta la stessa Corte di Cassazione, seppure in ambito penale ed in un contesto non giornalistico. La Cassazione, infatti, pur riconoscendo le aperture della giurisprudenza verso un linguaggio più diretto e disinvolto, ha comunque ribadito il carattere obiettivamente insultante ed ingiurioso di alcune espressioni, quali sono quelle con le quali si disumanizza la vittima assimilandola a cose, animali o concetti comunemente ritenuti ripugnanti, osceni e disgustosi. E, pertanto, paragonare un uomo ad un escremento è certamente una locuzione che, per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo, conserva intatta la sua valenza ingiuriosa (Cassazione penale, Sezione V sezione, Sentenza del 29 settembre 2011, n. 42933).

È SOLO SATIRA! Afferma, invece, il giornale. Ma quando ricorre la satira? È pacifico che la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore non costituisce reato ma legittimo esercizio del diritto di cronaca se ricorrono la verità oggettiva (o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca), la cosiddetta pertinenza, cioè l’interesse pubblico all’informazione e la cosiddetta continenza, cioè la forma civile dell’esposizione e della valutazione dei fatti narrati. Ebbene, a differenza del diritto di cronaca ed in quanto modalità ancor più corrosiva e spesso impietosa del già di per sé aspro diritto di critica, il diritto di satira è sottratto al parametro della verità, in quanto esprime, mediante il paradosso e la metafora surreale, un giudizio ironico su un fatto, che tuttavia deve essere espresso in modo talmente difforme dalla realtà, da potersene apprezzare subito l’inverosimiglianza ed il carattere iperbolico. Diversamente, infatti, anche la satira non sfugge al limite della correttezza e continenza delle espressioni e delle immagini utilizzate, rappresentando comunque una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi, e neppure può fondarsi su dati storicamente falsi. In ogni caso, comunque, la satira non deve essere puro disprezzo, distruzione della dignità della persona, non deve utilizzare espressioni gratuite, volgari, umilianti o comportare accostamenti volgari o ripugnanti o tali da comportare la deformazione dell’immagine pubblica del soggetto bersaglio e da suscitare il disprezzo della persona o il ludibrio della sua immagine pubblica (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 19 agosto 2015, n. 16899). 

PER LA CORTE DI CASSAZIONE pertanto l’espressione adoperata nella vicenda in esame ben si configura quale esercizio del diritto di satira, ricorrendone tutti gli elementi costitutivi. Evidente è, infatti, la valenza iperbolica e grottesca dell’espressione, che non si riduce e non mira ad un mero paragonare ingiurioso della persona ad un escremento, ma, con la sua portata metaforica e paradossale, tende ad esprimere un giudizio ben più ampio e spersonalizzato. Essa, infatti, va letta e quindi valutata alla luce del contesto, geografico e storico, in cui è stata utilizzata. Non si tratta, infatti, di una mera ingiuria personale volgare e gratuita, ma di un noto modo di dire lombardo, di origine popolare (ripreso appunto da un noto comico del passato originario di quegli stessi luoghi, dove poi è nata anche la vicenda in questione), che, linguisticamente evoluto nel tempo e riferito al contesto storico del momento, non mantiene la sua valenza esclusiva di estrema e volgare ingiuria personale. Infatti, proprio perché contestualizzato in un ambito di accesissima critica alle condotte pubblicamente ammesse o riconosciute in capo al soggetto bersagliato, il detto utilizzato non ha valenza diffamatoria diretta ma, con la sua portata grottescamente iperbolica e sganciata da ogni intrinseca verosimiglianza del paragone, mira solo ad escludere qualunque anche minima possibilità o ipotesi di accostamento della vicenda attuale ad altra del passato e relativa a personaggio di rilevanza storica. Con la locuzione, cioè, non si è voluto paragonare la persona ad un escremento, ma, attraverso la assoluta ed evidente assurdità del paragone grottesco che essa contiene, si è voluto solo rigettare ogni possibile accostamento tra le due vicende, quella del giornalista irriso e quella del romanziere e premio Nobel Hemingway (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 7 aprile 2016, n. 6787). 

PERTANTO attenzione a ritenere che con questa sentenza si sia ammessa una generale liceità a definire, per satira, una persona come un escremento, come qualche frettoloso e poco accorto lettore potrebbe intendere. È chiaro, infatti, che il ragionamento fatto dai giudici che hanno redatto la sentenza e le conclusioni cui sono giunti sono ben più complessi e traggono origine da una valutazione specifica del caso esaminato e del contesto in cui si è svolta questa vicenda.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando