Si tratta di un’ipotesi piuttosto rara ma accade. Certo è più facile che l’inquilino si renda moroso e non paghi canoni e spese accessorie, ma talvolta succede, per svariati motivi, che versi un affitto in realtà non corretto. Tale circostanza può verificarsi per errore oppure perché il proprietario pretende somme diverse e superiori a quelle indicate nel contratto, per eludere il fisco, oppure ancora perché, pur richiamando le norme sull’equo canone, di fatto applica un canone calcolato con criteri che non rispettano i parametri previsti dalla normativa. In questi casi il locatore si arricchisce senza un giustificato motivo e l’affittuario può quindi pretendere, entro un determinato termine (piuttosto breve), la restituzione di tutti i canoni e di tutte le spese, anche di quelle sostenute per le riparazioni che competevano al proprietario, pagate in eccedenza perché non dovute. Tecnicamente si parla di ripetizione dell’indebito ed è senza dubbio possibile. Ma il primo scoglio da affrontare per mettere al palo i proprietari furbetti è quello di provare al giudice di avere effettuato il pagamento e questo non è sempre così facile. Una recentissima sentenza della Suprema Corte va però in aiuto a tutti quegli inquilini che si trovano in queste condizioni, vediamo come…
ATTENZIONE! NON SI PUÒ SMETTERE DI PAGARE L’AFFITTO Quando l’inquilino scopre o capisce di aver pagato somme non dovute, spesso reagisce nel modo che ritiene più semplice e spontaneo smettendo di pagare, pensando erroneamente che tale condotta sia avvallata da legge e giudici. Niente di più sbagliato! Così facendo si rende moroso e si espone all’azione di sfratto da parte del proprietario il quale, utilizzando gli strumenti che l’ordinamento giuridico gli mette a disposizione chiede al giudice di ordinare l’immediato rilascio dell’immobile. Pur avendo mille ragioni per non versare i canoni in virtù delle eccedenze pagate in passato si pone, ahimè, in una situazione di difetto che non gli consente di continuare ad abitare l’immobile. La strada corretta per riottenere il denaro versato senza titolo è dunque quella di chiederne la restituzione mediante un’azione giudiziaria chiamata azione di ripetizione dell’indebito che si può proporre, per quanto riguarda le locazioni abitative, entro al più tardi sei mesi dalla riconsegna dell’immobile (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 7 febbraio 2014, n. 2829). Il termine è in effetti, piuttosto breve.
OCCORRE LA PROVA DEL PAGAMENTO La prima cosa che si deve provare, quando si chiede al giudice la restituzione di somme di denaro che non erano dovute, è quella di aver versato gli importi di cui si chiede la restituzione. Se tali importi sono stati versati con assegno, bonifico o vaglia postale il problema è facilmente superabile. Altrettanto facile è dimostrare di aver effettuato un pagamento non dovuto se di questo si ha la ricevuta (quietanza) che attesta il ricevimento dell’importo in contanti. In questo modo la prova è per così dire documentale e il giudice non dovrà far altro che passare al merito della questione per verificare se effettivamente gli importi di cui si chiede la restituzione siano stati pagati ingiustamente. Ciò accade, per esempio, quando il conduttore a causa dell’inerzia del proprietario è costretto a sostenere costi di sistemazione dell’alloggio che competono a quest’ultimo, come accade quando la caldaia si danneggia e deve essere sostituita o nel caso in cui gli infissi esterni siano talmente deteriorati da comportare una cattiva coibentazione dell’immobile. Ma gli esempi che si possono fare sono tanti e tra questi occorre ricordare anche il caso in cui, al di fuori del canone concordato e indicato formalmente nel contratto, si accetta di versare un ulteriore importo mensile in contanti.
SE SI PAGA IN CONTANTI, COME SI PROVA IL VERSAMENTO DI DENARO? L’unico modo per provare che siano state versate somme di denaro in contanti, dovute o non dovute, è quello di ricorrere al giuramento decisorio. Questo strumento giuridico è comunque pericolosissimo. Se il proprietario che viene chiamato davanti al giudice per confermare di aver ricevuto somme in contanti giura di non aver avuto nulla, contrastare le risultanze diventa praticamente impossibile. L’alternativa è quella di provare la circostanza per testimoni, ma in linea di principio, in base a quanto stabilito dall’art. 2721 del codice civile ciò non sarebbe possibile. Sul punto, tuttavia, è intervenuta anche la Suprema Corte la quale ha stabilito che quando non si tratta di provare l’esistenza di un contratto ma la consegna in contanti di una somma di danaro, la prova non incontra il limite dell’invocata disposizione. Sulla base di queste circostanze la Corte ha ritenuto legittimo l’espletamento della prova testimoniale al fine di provare un fatto storico relativo alla materiale dazione di una somma di danaro in contanti (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 24 maggio 2012, n. 8236).
IL PAGAMENTO DI CANONI SUPERIORI SI PRESUME ANCHE SENZA RICEVUTE Questo è il principio stabilito dai giudici della Cassazione in una decisione pubblicata qualche giorno fa secondo cui il giudice può ricorrere a presunzioni, vale a dire a un ragionamento, per risalire da fatti noti all’accertamento di fatti ignoti. In base a tale criterio, anche se l’inquilino non ha tutte le ricevute che attestano il pagamento, il giudice può comunque condannare il proprietario alla restituzione delle somme pagate in eccedenza rispetto a quanto concordato ed indicato nel contratto. Abbracciare questo orientamento non significa, infatti, violare il principio della doppia presunzione che si ha solo “quando si utilizza una presunzione come fatto noto, per derivarne da essa un’altra presunzione”. Nel caso esaminato dai giudici di legittimità il proprietario aveva incassato per molti anni importi superiori a quanto pattuito nel contratto, peraltro in misura superiore al canone legale ed è stato condannato a restituire la somma di 32.000 euro, indebitamente percepita. L’inquilino aveva infatti esibito una serie di vaglia postali e dimostrato attraverso testimonianze di aver eseguito anche pagamenti in contanti. Per tale motivo si è ritenuto che la mancanza di ricevute fosse dovuta proprio alla circostanza che alcuni pagamenti erano fatti con denaro contante consegnato al proprietario (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 22 giugno 2015, n. 12866).
Avvocato Patrizia Comite – Studio Comete