mercoledì 30 settembre 2015

SALUTE: SE DA UNA TRASFUSIONE SI CONTRAE UNA MALATTIA


Negli anni ’80 e ’90 il nostro Paese si è reso protagonista di una vicenda oscura e dolorosa. Non si tratta di episodi di criminalità organizzata o di scandali politici, ma di malasanità. Immaginate di aver bisogno di una trasfusione di sangue e di recarvi all’ospedale pensando di trarne solo benefici. Immaginate, dopo qualche tempo, di iniziare ad accusare debolezza, senso di nausea, mancanza di appetito e di essere sempre febbricitanti. A cosa pensereste? Molto probabilmente ad un virus presente nell’aria oppure ad un periodo di stress: in entrambi i casi a situazioni temporanee, guaribili con una semplice aspirina. Purtroppo, per molte persone così non è stato perché il presunto malessere passeggero si è trasformato in una delle malattie più gravi fino ad oggi scoperte e, quindi, chi si era sottoposto ad una trasfusione ematica, in quel periodo, ha scoperto di aver contratto l’epatite C. Rabbia, dolore, incredulità e la voglia di capire chi, perché e cosa avesse provocato quella malattia, sono i sentimenti provati da queste persone. Quali sono i rimedi giudiziari previsti in tali ipotesi? Chi è il soggetto responsabile? Cosa si può domandare e chi ha il potere di farlo? Vediamo un po’ insieme…

LA VICENDA È SEMPLICE E GRAVE Tra gli anni ’80 e ’90 alcune case farmaceutiche fornirono le strutture sanitarie di alcune sacche di sangue donato da soggetti definiti ad “alto rischio”, così cagionando il contagio di coloro che avevano ricevuto tale plasma, mediante trasfusioni ematiche o vaccini, con i virus dell’AIDS e dell’Epatite C (HCV). A seguito di tali fatti, si aprirono molti procedimenti penali nei confronti dei titolari di tali case farmaceutiche anche se, a quell’epoca, il virus HCV non era ancora conosciuto. Il nostro Paese, al fine di garantire alle vittime un ristoro economico, emanò la Legge n. 210 del 1992 con la quale riconobbe agli stessi il diritto ad un indennizzo corrisposto dal Ministero della Salute. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha sin da subito riconosciuto ai soggetti menomati, e ai loro eredi, il diritto a domandare e ottenere un risarcimento danni patrimoniali e non patiti a causa del contagio.

IL TERMINE PER L’INDENNIZZO PARTE DALLA SCOPERTA DELLA MALATTIA… La legge 210 del 1992 è composta da 8 articoli che prevedono, in modo più o meno dettagliato, la procedura da seguire per ottenere l’indennizzo, identificabile in una somma mensile o un assegno una tantum. La domanda deve essere presentata da chi ha direttamente subito la menomazione della propria integrità fisica oppure dai prossimi congiunti, entro tre anni (se il virus deriva da vaccino) o dieci anni (negli altri casi). Aspetto pratico e interessante attiene al momento in cui decorrono tali termini. Si potrebbe pensare che esso sia il giorno in cui si è entrati in contatto con il sangue; in tal modo però non si terrebbe in debito conto la circostanza per cui malattie come l’Epatite C o l’AIDS potrebbero avere un periodo di incubazione più o meno lungo oppure che la consapevolezza di aver contratto quel virus potrebbe essere raggiunta anche a distanza di molto tempo dal contagio; ecco perché si parla di danni lungo-latenti. Il Legislatore ha, quindi, sancito che il termine triennale o decennale inizi a decorrere dal giorno in cui il soggetto ha avuto conoscenza del danno, attraverso comprovata documentazione medica.

LA TUTELA È SIA AMMINISTRATIVA, SIA GIUDIZIARIA L’istanza per ottenere l’indennizzo deve essere indirizzata all’Azienda sanitaria di residenza ed essere correlata da una serie di documenti idonei ad accertare diversi elementi, tra cui ciò che ha causato maggiori problemi ossia il nesso causale tra l’impiego del sangue e la contrazione della malattia e tra questa e la menomazione dell’integrità fisica. Il giudizio su tale nesso viene effettuato dalla Commissione medica ospedaliera (CMO) che riconoscerà o negherà la fondatezza della pretesa dell’istante. Laddove la richiesta venga rigettata, è possibile impugnare il parere della CMO entro trenta giorni. Oltre a tale indennizzo, è possibile rivolgersi al Giudice civile al fine di ottenere un risarcimento sia da parte del Ministero della Salute, sia da parte della struttura sanitaria presso cui è stata effettuata la trasfusione o il vaccino. La domanda si propone con atto di citazione ove occorrerà dimostrare il medesimo nesso di dipendenza causale, oltre a tutte le conseguenze patite sia di carattere patrimoniale sia non patrimoniale. Il termine entro il quale occorre formulare la domanda giudiziale di risarcimento è di cinque anni o dieci anni, a seconda di chi rivesta la qualifica di attore, ovvero rispettivamente il contagiato o suoi eredi.

…MA I TERMINI DECORRONO SEMPRE DALLA SCOPERTA DELLA PATOLOGIA CON SEGNI EVIDENTI Così come per l’indennizzo, sono sorti dubbi circa il momento di decorrenza degli stessi. Secondo un primo orientamento, il termine quinquennale decorrerebbe dal giorno in cui il danneggiato scopra di essere affetto dal virus HCV. Già da tale momento, maturerebbe quella consapevolezza necessaria per decidere di intentare una causa civile. Come già detto, ricordiamo che malattie come quelle in commento possono avere lunghi periodi di incubazione e manifestarsi solo a distanza di molti anni dal contagio. Se si ritenesse valida la tesi appena esposta, la tutela risarcitoria non potrebbe essere riconosciuta in numerose situazioni sulla base di un fattore temporale del tutto indipendente dalla volontà dell’attore. Ecco perché la Cassazione, anche recentemente, ha ritenuto prevalente un secondo indirizzo che, tenendo in debito conto le peculiarità dell’AIDS e dell’Epatite C, sostiene che il termine prescrizionale inizi a decorrere dal manifestarsi della malattia ematica, attraverso segni evidenti sul corpo del danneggiato. Soltanto in tale momento, pertanto, il soggetto avrebbe una concreta consapevolezza del danno.

QUALI DANNI SONO RISARCIBILI? Questione rilevante riguarda i danni che possono essere domandati al Giudice. Vi rientrano, sicuramente, tutte quelle spese patrimoniali che si sono sostenute dalla scoperta della malattia (es. visite specialistiche, esami a pagamento e così via). È anche da ricomprendere il danno non patrimoniale, ossia il danno morale, biologico ed esistenziale derivante dal contagio. Nessuno, infatti, può dubitare che un soggetto possa aver patito una sofferenza interiore, una lesione della propria integrità fisica nonché una modifica del proprio stile di vita da una simile vicenda. Circa l’aspetto della liquidazione del danno morale, recentemente la giurisprudenza ha affermato che tale conseguenza sia distinta dal danno biologico e che tale separazione debba essere presa in considerazione anche nel momento della determinazione del quantum da risarcire. Conseguentemente, viste le peculiarità di tali pregiudizi, il Giudice ben potrà (a differenza di quanto previsto in passato) liquidare separatamente tanto il danno morale quanto il danno biologico (es. 100.000 euro per il primo e 200.000 euro per il secondo). Sarà necessario, però, dimostrarne l’esistenza in concreto. Tutti i danni appena ricordati possono essere domandati anche dagli eredi del contagiato quando, a causa della malattia, quest’ultimo sia deceduto. Oltre alle conseguenze patrimoniali e non direttamente subite dal parente, i prossimi congiunti potranno altresì chiedere il risarcimento dei pregiudizi patiti personalmente (es. il danno di aver perso un genitore).

LA PRIMA DIFESA DEL MINISTERO NON È PIÙ ACCETTATA Vi sono ulteriori aspetti di cui occorre, brevemente, parlare. In un primo momento, il Ministero negava la propria responsabilità affermando che solo nel 1989 si scoprì il virus dell’Epatite C e, pertanto, era logicamente impossibile prevenire il contagio di una malattia che non era ancora stata scoperta nel panorama scientifico. Tale strategia difensiva inizialmente venne ritenuta fondata dalla giurisprudenza (tant’è che si riconosceva il diritto all’indennizzo e al risarcimento solo per coloro che avevano contratto la malattia dal 1988 in poi); a partire dal 2008, però, le Sezioni Unite mutarono orientamento poiché, già prima di quell’anno, si conosceva il virus dell’Epatite “Non A non B” originato da trasfusione e che, successivamente, venne qualificato Epatite C. Inoltre, già negli anni ’70, il Ministero della Salute imponeva alle strutture sanitarie di effettuare rigidi controlli sui donatori di sangue, dovendo analizzare tutti quei fattori che potessero qualificarsi come indici presuntivi dell’esistenza di qualche patologia trasmissibile. Sulla base di ciò, la giurisprudenza ha costantemente affermato tanto la responsabilità del Ministero della Salute quanto della struttura sanitaria per aver colposamente omesso test ed esami idonei ad evitare il rischio di contagio.

LA PROVA DELLA RELAZIONE TRA DANNO E TRASFUSIONE È DIFFICILE L’accertamento del nesso di causalità è stato da sempre uno dei profili maggiormente problematici per il riconoscimento sia dell’indennizzo, sia del risarcimento. I dubbi derivavano dalla circostanza per cui non sarebbe possibile provare, in termini di certezza, il collegamento tra la trasfusione e il virus HCV. L’impiego di CTU, perizie ed esami tecnici potrebbe portare solo ad un giudizio di probabilità, come tale non rilevante. Ciò non appare, però, condivisibile. Nell’ambito del processo civile, infatti, la prova del nesso di causalità non deve essere così rigida come quella richiesta nel processo penale. È sufficiente che il collegamento tra la condotta e l’evento lesivo sia anche solo ragionevole e plausibile. L’indennizzo e il risarcimento, quindi, verranno riconosciuti anche quando non si possa escludere con certezza che il virus dell’Epatite C sia stato contratto a seguito della trasfusione, sulla base di un valutazione cronologica e clinica. Infine, occorre rammentare che qualora si intenda agire in giudizio anche contro la struttura sanitaria sarà necessario esperire preventivamente il tentativo di mediazione poiché essa è obbligatoria nelle materie attinenti alla responsabilità medica.


Dottoressa Licia Vulnera – Redazione Giuridicamente parlando