Negli
anni ’80 e ’90 il nostro Paese si è reso protagonista di una vicenda oscura e
dolorosa. Non si tratta di episodi di criminalità organizzata o di scandali
politici, ma di malasanità. Immaginate di aver bisogno di una trasfusione di
sangue e di recarvi all’ospedale pensando di trarne solo benefici. Immaginate,
dopo qualche tempo, di iniziare ad accusare debolezza, senso di nausea,
mancanza di appetito e di essere sempre febbricitanti. A cosa pensereste? Molto
probabilmente ad un virus presente nell’aria oppure ad un periodo di stress: in
entrambi i casi a situazioni temporanee, guaribili con una semplice aspirina.
Purtroppo, per molte persone così non è stato perché il presunto malessere
passeggero si è trasformato in una delle malattie più gravi fino ad oggi
scoperte e, quindi, chi si era sottoposto ad una trasfusione ematica, in quel
periodo, ha scoperto di aver contratto l’epatite C. Rabbia, dolore, incredulità
e la voglia di capire chi, perché e cosa avesse provocato quella malattia, sono
i sentimenti provati da queste persone. Quali sono i rimedi giudiziari previsti
in tali ipotesi? Chi è il soggetto responsabile? Cosa si può domandare e chi ha
il potere di farlo? Vediamo un po’ insieme…
LA
VICENDA È SEMPLICE E GRAVE Tra gli anni ’80 e ’90 alcune case
farmaceutiche fornirono le strutture sanitarie di alcune sacche di sangue
donato da soggetti definiti ad “alto rischio”, così cagionando il contagio di
coloro che avevano ricevuto tale plasma, mediante trasfusioni ematiche o
vaccini, con i virus dell’AIDS e dell’Epatite C (HCV). A seguito di tali fatti,
si aprirono molti procedimenti penali nei confronti dei titolari di tali case
farmaceutiche anche se, a quell’epoca, il virus HCV non era ancora conosciuto. Il
nostro Paese, al fine di garantire alle vittime un ristoro economico, emanò la Legge n. 210 del 1992 con la quale riconobbe agli stessi il diritto ad un indennizzo corrisposto dal Ministero
della Salute. Tuttavia, la Corte di
Cassazione ha sin da subito riconosciuto ai soggetti menomati, e ai
loro eredi, il diritto a domandare e
ottenere un risarcimento danni
patrimoniali e non patiti a causa del contagio.
IL
TERMINE PER L’INDENNIZZO PARTE DALLA SCOPERTA DELLA MALATTIA… La
legge 210 del 1992 è composta da 8
articoli che prevedono, in modo più o meno dettagliato, la procedura da seguire
per ottenere l’indennizzo,
identificabile in una somma mensile o un assegno una tantum. La domanda deve
essere presentata da chi ha direttamente subito la menomazione della propria
integrità fisica oppure dai prossimi congiunti, entro tre anni (se il virus deriva da vaccino) o dieci anni (negli altri
casi). Aspetto pratico e interessante attiene al momento in cui decorrono tali
termini. Si potrebbe pensare che esso sia il giorno in cui si è entrati in
contatto con il sangue; in tal modo però non si terrebbe in debito conto la
circostanza per cui malattie come l’Epatite C o l’AIDS potrebbero avere un
periodo di incubazione più o meno lungo oppure che la consapevolezza di aver
contratto quel virus potrebbe essere raggiunta anche a distanza di molto tempo
dal contagio; ecco perché si parla di danni
lungo-latenti. Il Legislatore ha, quindi, sancito che il termine triennale
o decennale inizi a decorrere dal giorno
in cui il soggetto ha avuto conoscenza del danno, attraverso comprovata
documentazione medica.
LA TUTELA
È SIA AMMINISTRATIVA, SIA GIUDIZIARIA L’istanza per ottenere l’indennizzo
deve essere indirizzata all’Azienda sanitaria di residenza ed essere correlata
da una serie di documenti idonei ad accertare diversi elementi, tra cui ciò che
ha causato maggiori problemi ossia il
nesso causale tra l’impiego del sangue e la contrazione della malattia
e tra questa e la menomazione dell’integrità fisica. Il giudizio su tale nesso
viene effettuato dalla Commissione medica ospedaliera (CMO) che riconoscerà o
negherà la fondatezza della pretesa dell’istante. Laddove la richiesta venga
rigettata, è possibile impugnare il parere della CMO entro trenta giorni. Oltre
a tale indennizzo, è possibile rivolgersi al Giudice civile al fine di
ottenere un risarcimento sia da
parte del Ministero della Salute, sia da parte della struttura sanitaria presso
cui è stata effettuata la trasfusione o il vaccino. La domanda si propone con
atto di citazione ove occorrerà dimostrare il medesimo nesso di dipendenza
causale, oltre a tutte le conseguenze patite sia di carattere patrimoniale sia
non patrimoniale. Il termine entro il quale occorre formulare la domanda
giudiziale di risarcimento è di cinque anni o dieci anni, a seconda di chi
rivesta la qualifica di attore, ovvero rispettivamente il contagiato o suoi
eredi.
…MA I TERMINI DECORRONO SEMPRE DALLA SCOPERTA DELLA PATOLOGIA CON SEGNI EVIDENTI Così
come per l’indennizzo, sono sorti dubbi circa il momento di decorrenza degli stessi. Secondo un primo orientamento,
il termine quinquennale decorrerebbe dal giorno in cui il danneggiato scopra di
essere affetto dal virus HCV. Già da tale momento, maturerebbe quella
consapevolezza necessaria per decidere di intentare una causa civile. Come già
detto, ricordiamo che malattie come quelle in commento possono avere lunghi
periodi di incubazione e manifestarsi solo a distanza di molti anni dal
contagio. Se si ritenesse valida la tesi appena esposta, la tutela risarcitoria
non potrebbe essere riconosciuta in numerose situazioni sulla base di un
fattore temporale del tutto indipendente dalla volontà dell’attore. Ecco perché
la Cassazione, anche recentemente,
ha ritenuto prevalente un secondo indirizzo che, tenendo in debito conto le
peculiarità dell’AIDS e dell’Epatite C,
sostiene che il termine prescrizionale inizi a decorrere dal manifestarsi della
malattia ematica, attraverso segni evidenti sul corpo del danneggiato.
Soltanto in tale momento, pertanto, il soggetto avrebbe una concreta
consapevolezza del danno.
QUALI
DANNI SONO RISARCIBILI? Questione rilevante riguarda i
danni che possono essere domandati al Giudice. Vi rientrano, sicuramente, tutte
quelle spese patrimoniali che si sono sostenute dalla scoperta della malattia
(es. visite specialistiche, esami a pagamento e così via). È anche da
ricomprendere il danno non patrimoniale, ossia il danno morale, biologico ed
esistenziale derivante dal contagio. Nessuno, infatti, può dubitare che un
soggetto possa aver patito una sofferenza interiore, una lesione della propria
integrità fisica nonché una modifica del proprio stile di vita da una simile
vicenda. Circa l’aspetto della liquidazione
del danno morale, recentemente la giurisprudenza ha affermato che tale
conseguenza sia distinta dal danno biologico e che tale separazione debba
essere presa in considerazione anche nel momento della determinazione del
quantum da risarcire. Conseguentemente, viste le peculiarità di tali
pregiudizi, il Giudice ben potrà (a differenza di quanto previsto in passato)
liquidare separatamente tanto il
danno morale quanto il danno biologico (es. 100.000 euro per il primo e 200.000
euro per il secondo). Sarà necessario, però, dimostrarne l’esistenza in
concreto. Tutti i danni appena ricordati possono essere domandati anche dagli eredi del contagiato
quando, a causa della malattia, quest’ultimo sia deceduto. Oltre alle
conseguenze patrimoniali e non direttamente subite dal parente, i prossimi
congiunti potranno altresì chiedere il risarcimento dei pregiudizi patiti
personalmente (es. il danno di aver perso un genitore).
LA
PRIMA DIFESA DEL MINISTERO NON È PIÙ ACCETTATA Vi
sono ulteriori aspetti di cui occorre, brevemente, parlare. In un primo
momento, il Ministero negava la propria responsabilità
affermando che solo nel 1989 si scoprì il virus dell’Epatite C e, pertanto, era
logicamente impossibile prevenire il contagio di una malattia che non era
ancora stata scoperta nel panorama scientifico. Tale strategia difensiva
inizialmente venne ritenuta fondata dalla giurisprudenza (tant’è che si
riconosceva il diritto all’indennizzo e al risarcimento solo per coloro che
avevano contratto la malattia dal 1988 in poi); a partire dal 2008, però, le
Sezioni Unite mutarono orientamento poiché, già prima di quell’anno, si
conosceva il virus dell’Epatite “Non A
non B” originato da trasfusione e che, successivamente, venne qualificato
Epatite C. Inoltre, già negli anni ’70, il Ministero della Salute imponeva alle
strutture sanitarie di effettuare rigidi controlli sui donatori di sangue,
dovendo analizzare tutti quei fattori che potessero qualificarsi come indici
presuntivi dell’esistenza di qualche patologia trasmissibile. Sulla base di
ciò, la giurisprudenza ha costantemente affermato tanto la responsabilità del
Ministero della Salute quanto della struttura sanitaria per aver colposamente omesso test ed esami
idonei ad evitare il rischio di contagio.
LA
PROVA DELLA RELAZIONE TRA DANNO E TRASFUSIONE È DIFFICILE L’accertamento
del nesso di causalità è stato da sempre uno dei profili maggiormente
problematici per il riconoscimento sia dell’indennizzo, sia del risarcimento. I
dubbi derivavano dalla circostanza per cui non sarebbe possibile provare, in termini
di certezza, il collegamento tra la trasfusione e il virus HCV. L’impiego di
CTU, perizie ed esami tecnici potrebbe portare solo ad un giudizio di
probabilità, come tale non rilevante. Ciò non appare, però, condivisibile.
Nell’ambito del processo civile, infatti, la prova del nesso di causalità non
deve essere così rigida come quella richiesta nel processo penale. È
sufficiente che il collegamento tra la condotta e l’evento lesivo sia anche
solo ragionevole e plausibile. L’indennizzo
e il risarcimento, quindi, verranno riconosciuti anche quando non si possa
escludere con certezza che il virus dell’Epatite C sia stato contratto a
seguito della trasfusione, sulla base di un valutazione cronologica e clinica. Infine, occorre rammentare che qualora si intenda agire in giudizio
anche contro la struttura sanitaria sarà necessario esperire preventivamente il
tentativo di mediazione poiché essa
è obbligatoria nelle materie attinenti alla responsabilità medica.
Dottoressa Licia Vulnera – Redazione Giuridicamente
parlando