Si sa, i rapporti personali sul posto di lavoro possono
creare tensioni e conflitti. Rivalità, gelosie e pettegolezzi possono essere
all’ordine del giorno e dar luogo ad antipatie tra persone con cui si condivide
la maggior parte della giornata. Espressioni come “Francesca sembri un panda con quelle occhiaie!” oppure “Mario si crede di essere chissà chi, non lo
sopporto!” non sono molto gentili, ma non hanno alcuna rilevanza penale. La
situazione muta quando i pensieri si trasformano in parole offensive e
insolenti, poiché il destinatario potrebbe decidere di sporgere una querela
davanti all’autorità competente. Ma qual è il confine tra lecito e illecito?
Tra offesa e maleducazione tollerabile? E fino a che punto il datore di lavoro
può giudicare la condotta del dipendente senza ferire la personalità di
quest’ultimo? Può dichiarare di aver esercitato il potere gerarchico
riconosciutogli dalla legge per andare esente da responsabilità penale?
Cerchiamo delle risposte …
L’ONORE È TUTELATO… Il
nostro codice penale tutela l’onore essenzialmente attraverso due diversi
reati: l’ingiuria (art. 594) e la diffamazione (art 595). Il bene garantito da
queste due norme è da intendere quale autostima e reputazione, cioè
l’apprezzamento delle nostre qualità personali da parte della società. L’onore,
secondo costante giurisprudenza, rientra
nei diritti fondamentali dell’uomo di cui parla l’art 2 della Costituzione
e garantiti a ogni individuo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali.
Quest’ultima norma, in particolare, sancisce che la Repubblica tutela una serie
di diritti che non possono essere in nessun modo e in nessun caso violati (ecco
perché sono detti “inviolabili”), pena una condanna penale e civile al
risarcimento del danno subito. Tali privilegi meritano, pertanto, una tutela rafforzata davanti a qualsiasi
giudice, sia italiano sia straniero. L’onore è un valore proprio di ciascuno di
noi e, pertanto, qualsiasi offesa della reputazione incide direttamente sulla
persona umana e sul suo corretto sviluppo.
…MA RISENTE DELL’EVOLUZIONE SOCIALE Infatti, ciò che viene considerato lesivo dell’onore in
un’epoca non è detto che lo sia in un’altra. Espressioni quali “stupido” oppure
“ottuso”, offensive in tempi passati, potrebbero oggi non avere alcuna
rilevanza penale e, pertanto, di ciò il giudice dovrà tenerne conto in sede di
accertamento della responsabilità. Oltre ad un contesto più generico, occorre
guardare alla singola realtà e ambito in cui si vive (es. la parola “pirla”
potrebbe essere ritenuta offensiva in alcune Regioni di Italia e non in altre).
Tutto ciò dimostra come i concetti in commento siano estremamente condizionati
dalla variabilità storica e
dall’ambito sociale. Certo è che, al fine di garantire il valore della certezza
del diritto, i giudici nazionali dovranno fornire un’interpretazione il più
possibile costante e omogenea.
DISTINGUIAMO L’INGIURIA I
reati di ingiuria e di diffamazione, purtroppo molto frequenti nella prassi, si
differenziano per un particolare elemento: la presenza o meno della persona
offesa. Ebbene, si avrà il delitto di cui all’art 594 del codice penale
nell’ipotesi in cui il soggetto agente offenda l’onore di una persona presente;
si avrà il reato di diffamazione, al contrario, quando lo stesso offenda
l’altrui reputazione comunicando con soggetti terzi. Passiamo, quindi, ad una breve
analisi delle singole tipologie. Il reato di ingiuria è un delitto comune, ossia può essere commesso da qualunque soggetto,
non essendo necessarie sue particolari qualità personali, e richiede la volontà generica di ledere l’altrui
reputazione. La persona offesa,
come già detto, deve essere presente
e tale è il soggetto che è visto dall’autore del reato ed è in grado di percepire l’offesa. Tuttavia parte della
giurisprudenza ha ritenuto configurato il reato in esame anche quando la
vittima non sia capace di comprendere la lesione della reputazione subita,
poiché altrimenti non si tutelerebbero i soggetti incapaci. Ciò significa che
anche una bambina di tre anni è idonea ad essere qualificata come persona
offesa dal reato. Infine, la fattispecie si configura anche quando la condotta
è commessa attraverso diversi mezzi di comunicazione.
…DALLA DIFFAMAZIONE Il
delitto di diffamazione presenta i medesimi elementi costitutivi visti per
l’ingiuria (soggetto agente può essere chiunque; volontà di offendere; mezzi di
comunicazione), ma le espressioni offensive devono essere proferite a persona
diversa da quella direttamente interessata. Il legislatore ha sancito un
aumento di pena per entrambi i reati quando l’offesa consiste nell’attribuzione
di un fatto determinato e ciò perché la presenza di maggiori dettagli causa un
più grave pregiudizio per la vittima. La tutela dell’onore, però, deve essere
bilanciata con il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero ossia,
ad esempio, il diritto di cronaca giornalistica. Ecco perché le offese
proferite da un giornalista nell’esercizio delle sue funzioni potranno non
trovare tutela penale. A tre condizioni però: la notizia riferita sia vera; la
stessa sia stata espressa attraverso una forma corretta, evitando offese
gratuite; la notizia presenta un interesse pubblico. Altra causa di non
punibilità è sancita nell’art 599 del codice penale, ossia la reciprocità delle
offese.
CHI GIUDICA SU QUESTI REATI? Ultime osservazioni attengono ad aspetti pratici. La
competenza a giudicare tali reati, nella forma non aggravata per il reato di diffamazione, spetta al giudice di pace, attraverso un
procedimento al quale si applicano le stesse regole che valgono per i giudici
superiori e ove si tenta la conciliazione preventiva fra le parti. Ulteriore
aspetto da rilevare è che ingiuria e
diffamazione potrebbero, a
breve, essere depenalizzati in illeciti
amministrativi, ossia non essere più considerati reati.
GIUDICARE LE OFFESE IN AMBITO LAVORATIVO È DELICATO! A questo punto possiamo tornare alle offese proferite in
ambito lavorativo. Si tratta di un tema molto delicato, dove la linea di
confine tra il lecito e il penalmente rilevante è molto sottile. Si pensi
all’ipotesi in cui il datore di lavoro o un collega che riveste funzioni
superiori decida di sindacare la nostra condotta. Potrebbe darsi che questi
soggetti contestino o dissentano con il nostro operato e, nel farlo, pronuncino
delle parole che offendano la nostra persona, non limitandosi a valutare la
nostra condotta lavorativa. In tali ipotesi si configurerà il reato di
ingiuria? Se applicassimo incondizionatamente quanto sopra esposto, la risposta
a questo interrogativo non potrebbe che essere positiva. Un’offesa della reputazione di una persona realizzata in qualsiasi contesto deve essere sanzionata penalmente,
soprattutto quando la stessa avvenga in presenza di un particolare rapporto
qualificato. Tuttavia l’orientamento prevalente non è così assoluto, ritenendo
di dover analizzare il singolo caso concreto. In alcuni ipotesi, i giudici
hanno affermato la responsabilità del datore di lavoro quando lo stesso,
nell’esprimere un parere sul lavoro del dipendente, abbia travalicato ogni
finalità correttiva e disciplinare. In altri termini, là dove abbia utilizzato
delle espressioni volte direttamente alla persona del subordinato e non al
comportamento tenuto dallo stesso nell’espletamento del suo lavoro. Hanno,
invece, escluso la responsabilità quando, nonostante termini poco appropriati,
le offese erano rivolte espressamente alla professionalità del lavoratore e
alle sue competenze; indirizzate, pertanto, alla sua condotta lavorativa.
ESERCITARE IL POTERE GERARCHICO È LECITO SE NON MORTIFICA IL
LAVORATORE Ebbene, secondo la giurisprudenza,
laddove il datore di lavoro o il collega di grado più elevato eserciti il
potere gerarchico non ledendo la dignità umana del lavoratore, non si integreranno
i reati di ingiuria o di diffamazione; nel caso contrario, il giudice potrà
condannare l’autore delle offese perché lesive di un diritto inviolabile
riconosciuto e tutelato dall’art 2 della Costituzione. Tale assunto ha trovato
recente conferma in una sentenza della Corte di Cassazione con la quale si è
condannata la direttrice di un istituto tecnico professionale per aver offeso
un’assistente amministrativa, affermando che la stessa “leccava il culo e i piedi” alla precedente direttrice. I giudici di
legittimità hanno riformato la sentenza della Corte di Appello che, di
contrario avviso, aveva assolto la datrice di lavoro, ritenendo l’espressione
detta in un momento di rabbia causato dall’ennesimo ritardo della subordinata. La
responsabilità della direttrice, in ultimo grado, è stata accertata affermando
che il potere di sovra-ordinazione
consente sì di richiamare il dipendente, ma non di offendere e mortificare la
sua persona, oltrepassando i normali limiti di correttezza mediante un
linguaggio poco consono a qualsiasi contesto sociale (Cassazione Penale, Sezione V, Sentenza del 20 agosto 2015, n. 35013).
Dottoressa Licia Vulnera – Redazione Giuridicamente
parlando