lunedì 28 settembre 2015

LAVORO: DATORE ATTENTO! SE MORTIFICHI I DIPENDENTI RISCHI LA CONDANNA


Si sa, i rapporti personali sul posto di lavoro possono creare tensioni e conflitti. Rivalità, gelosie e pettegolezzi possono essere all’ordine del giorno e dar luogo ad antipatie tra persone con cui si condivide la maggior parte della giornata. Espressioni come “Francesca sembri un panda con quelle occhiaie!” oppure “Mario si crede di essere chissà chi, non lo sopporto!” non sono molto gentili, ma non hanno alcuna rilevanza penale. La situazione muta quando i pensieri si trasformano in parole offensive e insolenti, poiché il destinatario potrebbe decidere di sporgere una querela davanti all’autorità competente. Ma qual è il confine tra lecito e illecito? Tra offesa e maleducazione tollerabile? E fino a che punto il datore di lavoro può giudicare la condotta del dipendente senza ferire la personalità di quest’ultimo? Può dichiarare di aver esercitato il potere gerarchico riconosciutogli dalla legge per andare esente da responsabilità penale? Cerchiamo delle risposte …

L’ONORE È TUTELATO… Il nostro codice penale tutela l’onore essenzialmente attraverso due diversi reati: l’ingiuria (art. 594) e la diffamazione (art 595). Il bene garantito da queste due norme è da intendere quale autostima e reputazione, cioè l’apprezzamento delle nostre qualità personali da parte della società. L’onore, secondo costante giurisprudenza, rientra nei diritti fondamentali dell’uomo di cui parla l’art 2 della Costituzione e garantiti a ogni individuo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali. Quest’ultima norma, in particolare, sancisce che la Repubblica tutela una serie di diritti che non possono essere in nessun modo e in nessun caso violati (ecco perché sono detti “inviolabili”), pena una condanna penale e civile al risarcimento del danno subito. Tali privilegi meritano, pertanto, una tutela rafforzata davanti a qualsiasi giudice, sia italiano sia straniero. L’onore è un valore proprio di ciascuno di noi e, pertanto, qualsiasi offesa della reputazione incide direttamente sulla persona umana e sul suo corretto sviluppo.

…MA RISENTE DELL’EVOLUZIONE SOCIALE Infatti, ciò che viene considerato lesivo dell’onore in un’epoca non è detto che lo sia in un’altra. Espressioni quali “stupido” oppure “ottuso”, offensive in tempi passati, potrebbero oggi non avere alcuna rilevanza penale e, pertanto, di ciò il giudice dovrà tenerne conto in sede di accertamento della responsabilità. Oltre ad un contesto più generico, occorre guardare alla singola realtà e ambito in cui si vive (es. la parola “pirla” potrebbe essere ritenuta offensiva in alcune Regioni di Italia e non in altre). Tutto ciò dimostra come i concetti in commento siano estremamente condizionati dalla variabilità storica e dall’ambito sociale. Certo è che, al fine di garantire il valore della certezza del diritto, i giudici nazionali dovranno fornire un’interpretazione il più possibile costante e omogenea.

DISTINGUIAMO L’INGIURIA I reati di ingiuria e di diffamazione, purtroppo molto frequenti nella prassi, si differenziano per un particolare elemento: la presenza o meno della persona offesa. Ebbene, si avrà il delitto di cui all’art 594 del codice penale nell’ipotesi in cui il soggetto agente offenda l’onore di una persona presente; si avrà il reato di diffamazione, al contrario, quando lo stesso offenda l’altrui reputazione comunicando con soggetti terzi. Passiamo, quindi, ad una breve analisi delle singole tipologie. Il reato di ingiuria è un delitto comune, ossia può essere commesso da qualunque soggetto, non essendo necessarie sue particolari qualità personali, e richiede la volontà generica di ledere l’altrui reputazione. La persona offesa, come già detto, deve essere presente e tale è il soggetto che è visto dall’autore del reato ed è in grado di percepire l’offesa. Tuttavia parte della giurisprudenza ha ritenuto configurato il reato in esame anche quando la vittima non sia capace di comprendere la lesione della reputazione subita, poiché altrimenti non si tutelerebbero i soggetti incapaci. Ciò significa che anche una bambina di tre anni è idonea ad essere qualificata come persona offesa dal reato. Infine, la fattispecie si configura anche quando la condotta è commessa attraverso diversi mezzi di comunicazione.

…DALLA DIFFAMAZIONE Il delitto di diffamazione presenta i medesimi elementi costitutivi visti per l’ingiuria (soggetto agente può essere chiunque; volontà di offendere; mezzi di comunicazione), ma le espressioni offensive devono essere proferite a persona diversa da quella direttamente interessata. Il legislatore ha sancito un aumento di pena per entrambi i reati quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato e ciò perché la presenza di maggiori dettagli causa un più grave pregiudizio per la vittima. La tutela dell’onore, però, deve essere bilanciata con il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero ossia, ad esempio, il diritto di cronaca giornalistica. Ecco perché le offese proferite da un giornalista nell’esercizio delle sue funzioni potranno non trovare tutela penale. A tre condizioni però: la notizia riferita sia vera; la stessa sia stata espressa attraverso una forma corretta, evitando offese gratuite; la notizia presenta un interesse pubblico. Altra causa di non punibilità è sancita nell’art 599 del codice penale, ossia la reciprocità delle offese.

CHI GIUDICA SU QUESTI REATI? Ultime osservazioni attengono ad aspetti pratici. La competenza a giudicare tali reati, nella forma non aggravata per il reato di diffamazione, spetta al giudice di pace, attraverso un procedimento al quale si applicano le stesse regole che valgono per i giudici superiori e ove si tenta la conciliazione preventiva fra le parti. Ulteriore aspetto da rilevare è che ingiuria e diffamazione potrebbero, a breve, essere depenalizzati in illeciti amministrativi, ossia non essere più considerati reati.

GIUDICARE LE OFFESE IN AMBITO LAVORATIVO È DELICATO! A questo punto possiamo tornare alle offese proferite in ambito lavorativo. Si tratta di un tema molto delicato, dove la linea di confine tra il lecito e il penalmente rilevante è molto sottile. Si pensi all’ipotesi in cui il datore di lavoro o un collega che riveste funzioni superiori decida di sindacare la nostra condotta. Potrebbe darsi che questi soggetti contestino o dissentano con il nostro operato e, nel farlo, pronuncino delle parole che offendano la nostra persona, non limitandosi a valutare la nostra condotta lavorativa. In tali ipotesi si configurerà il reato di ingiuria? Se applicassimo incondizionatamente quanto sopra esposto, la risposta a questo interrogativo non potrebbe che essere positiva. Un’offesa della reputazione di una persona realizzata in qualsiasi contesto deve essere sanzionata penalmente, soprattutto quando la stessa avvenga in presenza di un particolare rapporto qualificato. Tuttavia l’orientamento prevalente non è così assoluto, ritenendo di dover analizzare il singolo caso concreto. In alcuni ipotesi, i giudici hanno affermato la responsabilità del datore di lavoro quando lo stesso, nell’esprimere un parere sul lavoro del dipendente, abbia travalicato ogni finalità correttiva e disciplinare. In altri termini, là dove abbia utilizzato delle espressioni volte direttamente alla persona del subordinato e non al comportamento tenuto dallo stesso nell’espletamento del suo lavoro. Hanno, invece, escluso la responsabilità quando, nonostante termini poco appropriati, le offese erano rivolte espressamente alla professionalità del lavoratore e alle sue competenze; indirizzate, pertanto, alla sua condotta lavorativa.

ESERCITARE IL POTERE GERARCHICO È LECITO SE NON MORTIFICA IL LAVORATORE Ebbene, secondo la giurisprudenza, laddove il datore di lavoro o il collega di grado più elevato eserciti il potere gerarchico non ledendo la dignità umana del lavoratore, non si integreranno i reati di ingiuria o di diffamazione; nel caso contrario, il giudice potrà condannare l’autore delle offese perché lesive di un diritto inviolabile riconosciuto e tutelato dall’art 2 della Costituzione. Tale assunto ha trovato recente conferma in una sentenza della Corte di Cassazione con la quale si è condannata la direttrice di un istituto tecnico professionale per aver offeso un’assistente amministrativa, affermando che la stessa “leccava il culo e i piedi” alla precedente direttrice. I giudici di legittimità hanno riformato la sentenza della Corte di Appello che, di contrario avviso, aveva assolto la datrice di lavoro, ritenendo l’espressione detta in un momento di rabbia causato dall’ennesimo ritardo della subordinata. La responsabilità della direttrice, in ultimo grado, è stata accertata affermando che il potere di sovra-ordinazione consente sì di richiamare il dipendente, ma non di offendere e mortificare la sua persona, oltrepassando i normali limiti di correttezza mediante un linguaggio poco consono a qualsiasi contesto sociale (Cassazione Penale, Sezione V, Sentenza del 20 agosto 2015, n. 35013).


Dottoressa Licia Vulnera – Redazione Giuridicamente parlando