La cronaca di questi ultimi tempi ci ha raccontato spesso di
lavoratori fannulloni, infedeli ed assenteisti, che, ora fingendosi malati, ora
abusando dei permessi previsti dalla legge, ora assentandosi
ingiustificatamente dal luogo di lavoro, violano gli obblighi di diligenza e di
fedeltà sanciti dagli articoli del codice civile, arrecando anche un danno,
economico e di immagine, al datore di lavoro. Sebbene gli episodi più eclatanti
riguardino dipendenti pubblici, non è immune a tale fenomeno anche il settore
privato, dove infatti gli imprenditori sempre più spesso ricorrono ad
investigatori privati, per far pedinare i dipendenti sospettati di tali
comportamenti ed accertarne la violazione degli obblighi. Ma, è legittima una
tale forma di controllo o costituisce una lesione della privacy, una violazione
dei principi sanciti dallo Statuto dei lavoratori? Vediamo cosa stabilisce una
recentissima sentenza della Corte di Cassazione…
LA VICENDA da cui
scaturisce la decisione in esame, è una come tante, la più classica: il
licenziamento per simulazione
fraudolenta dello stato di malattia di un lavoratore, incastrato appunto da
filmati, fotografie e testimonianze di
un agente investigativo, che lo aveva colto nel compimento di “tutta una
serie di azioni e movimenti del tutto incompatibili con la sussistenza della
malattia impeditiva della prestazione di lavoro”, certificata come lombalgia.
Tra i motivi della conseguente impugnativa del licenziamento patito, il
lavoratore aveva addotto appunto l’inammissibilità della “ricerca degli elementi utili a verificare l’attendibilità della
certificazione medica inviata… compiuta da un’agenzia investigativa incaricata
dal datore di lavoro”, in quanto contrastante con gli articoli 2, 3 4 e 5 dello Statuto dei lavoratori e, più in
generale, con gli articoli 1 e seguenti
del Codice della Privacy, di cui al Decreto Legislativo n. 196/2003.
LA CORTE DI CASSAZIONE
ha però dato ragione al datore di lavoro, richiamando e confermando un
orientamento prevalente già emerso in precedenti pronunce emesse per analoghe
fattispecie. Per i giudici di legittimità, infatti, le disposizioni contenute
nell’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori
in materia accertamenti sanitari, non precludono al datore di lavoro di
verificare e contestare l’attendibilità del certificato medico prodotto dal
lavoratore (e in genere degli accertamenti di carattere sanitario), qualora
sussistano circostanze di fatto, pur
non risultanti da un accertamento sanitario, idonee a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non
idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa e,
quindi, a giustificare l’assenza del lavoratore. Ben può, quindi, il datore
di lavoro prendere conoscenza, attraverso l’utilizzo di investigatori privati,
di comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento
dell’attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto
adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. In tale contesto,
quindi, può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppur
compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea ad arrecare un
pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, al datore di lavoro.
Laddove, infatti, come nel caso di specie, la malattia del lavoratore, rimasto
assente per dichiarata lombalgia, si riveli insussistente o, comunque, tale da
non impedirne l’attività lavorativa, si configurano mala fede e slealtà nei confronti del datore di lavoro tale da incidere sul rapporto fiduciario e
legittimare l’adozione di un provvedimento di licenziamento per giusta causa (Cassazione civile, Sezione lavoro, Sentenza
del 16 agosto 2016, n. 17113; così anche Cassazione civile, Sezione lavoro,
Sentenza del 26 novembre 2014, n. 25162).
L’UTILIZZO DI INVESTIGATORI PRIVATI NON È TUTTAVIA SENZA
LIMITI Certo, da un punto di vista generale,
anche le disposizioni di cui agli articoli 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori,
pur delimitando, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, la sfera di
intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri
interessi (tutela del patrimonio aziendale e vigilanza dell’attività
lavorativa), non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla
collaborazione di soggetti (quale, appunto, un’agenzia investigativa) diversi
dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né di
controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica
l’adempimento delle prestazioni lavorative ai sensi degli articoli 2086 e 2104 del
codice civile. Tuttavia, e qui c’è il
limite, per i giudici di legittimità, l’attività delle agenzie
investigative non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento né
l’inadempimento dell’obbligazione lavorativa, ma deve limitarsi agli atti illeciti, alle condotte di natura fraudolenta del
lavoratore, non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione, ma
comunque incidenti in maniera pregiudizievole sul rapporto lavorativo. In
sostanza, quindi, è lecito utilizzare ai predetti fini le agenzie
investigative, ma a condizione che la loro attività non sconfini nella
vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, che l’art. 3 dello Statuto
riserva direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori (Cassazione civile, Sezione lavoro, Sentenza
del 7 giugno 2003, n. 9167).
E NEL PUBBLICO IMPIEGO?
Di recente, la Corte dei Conti, probabilmente recependo l’indignazione generale
scatenata dai tanti casi dei cosiddetti furbetti
del cartellino, ha ribaltato, con alcune sentenze, consolidate posizioni
precedenti, consentendo anche alla Pubblica Amministrazione di avvalersi dei
servizi investigativi privati per stanare in maniera più incisiva, rapida ed
efficace, i dipendenti infedeli e riconoscendo valore probatorio alle indagini
private finalizzate ad accertare e contrastare le violazioni contrattuali dei
dipendenti pubblici (Corte dei Conti,
seconda sezione centrale di appello, Sentenza n. 71 del 22 gennaio 2016).
Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente
parlando