lunedì 4 aprile 2016

LAVORO: QUANDO LO STRESS DÀ DIRITTO AL RISARCIMENTO


L’ambiente lavorativo, si sa, provoca normalmente ansia, agitazione, frustrazione, stress. La colpa è delle scadenze da rispettare, dei contrasti e delle competizioni tra colleghi, delle pressioni dei capi, ma anche della cattiva organizzazione del lavoro (scarsa partecipazione ai processi decisionali e organizzativi, poca chiarezza nei ruoli e nelle mansioni). In questi casi, infatti, il lavoratore si sente incapace e inadeguato di fronte alle richieste provenienti dal contesto lavorativo con conseguenti effetti negativi sulla sua sfera psico-fisica, e spesso sulla qualità del suo lavoro. È lo stress da lavoro, appunto. Il compito di mantenere un ambiente di lavoro sereno sia per l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori sia per una piena ed efficiente produttività aziendale è del datore di lavoro che ha l’obbligo giuridico di adottare un sistema di gestione idoneo a individuare, valutare ed eliminare i fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Ma, che succede se a creare una situazione di stress e malessere lavorativo è proprio il datore di lavoro?


È COME UN TRADIMENTO! Infatti, ogni azione ostile o di avversione verso il lavoratore, sia messa direttamente in atto sia semplicemente tollerata dal datore di lavoro, è illecita in quanto integra la violazione di un preciso obbligo contrattuale, disciplinato e derivante dall’art. 2087 del codice civile, il quale impone appunto di prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente. Oltre a ciò tale condotta implica la violazione dell’obbligo generale di non arrecare nocumento a nessuno con comportamenti che possono causare danni di natura non patrimoniale, come accade appunto quando le azioni illecite del datore di lavoro violano, in modo grave, i diritti del lavoratore oggetto di tutela costituzionale, quale il diritto alla salute (art. 32 Cost.). D’altronde, come ha più volte affermato la giurisprudenza, il lavoro non rappresenta solo un mezzo di guadagno, ma anche una forma di estrinsecazione della personalità dell’individuo, diritto tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione. Pertanto, il datore di lavoro deve astenersi da iniziative, comportamenti o scelte che possono ledere la personalità morale del lavoratore ed integrare, nei casi più gravi, addirittura comportamenti aventi rilevanza penale (Tribunale del Lavoro di Bergamo, Sentenza 20/06/2005, n. 286; Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 05/11/2012, n. 18927; Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 19/02/2016, n. 3291). 

IN QUESTA MATERIA LA GIURISPRUDENZA HA ANTICIPATO LA NORMA In quanto più vicina e sensibile alle vicende della vita quotidiana, infatti, la giurisprudenza si è trovata a fare i conti con situazioni di disagio lavorativo che, anche se non contemplate e disciplinate da una normativa ancora non pienamente rispondente o consapevole, sono state valutate degne di attenzione e tutela. Per poterlo fare, la giurisprudenza si è rivolta alla scienza medica e alla psicologia del lavoro, con cui la materia presenta evidenti connessioni, e mutuandone concetti e nozioni, ha identificato, definito e sanzionato alcuni comportamenti del datore di lavoro turbativi della serenità del lavoratore all’interno dei luoghi di lavoro che, pur non avendo ancora uno specifico riconoscimento giuridico, si pongono in contrasto con l’art. 2087 del codice civile e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Decreto Legislativo n. 81/2008). È così, infatti, che è entrato nel mondo del diritto il fenomeno dello Straining, di cui la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi con una recentissima sentenza, che ne ha confermato la rilevanza giuridica, ribadendo la tutelabilità del lavoratore che ne è vittima (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 19/02/2016, n. 3291). 

CHE COS’È LO STRAINING? È una specie di fratello minore del più noto Mobbing, con il quale tuttavia non va confuso e che, grazie al suo riconoscimento, ad opera della giurisprudenza, consente di dare oggi tutela a quei lavoratori che in passato ne erano del tutto privi in quanto le loro condizioni di profondo disagio lavorativo erano ritenute semplice stress da lavoro. Infatti, lo straining viene definito come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, che si colloca a metà strada tra il normale stress lavorativo ed il Mobbing. È più grave dello stress da lavoro, perché il lavoratore è vittima di un tipo di stress forzato (cioè superiore a quello normalmente derivante dalle sue mansioni o dall’organizzazione lavorativa) e provocato appositamente ai suoi danni con condotte e azioni ostili caratterizzate da intenzionalità o discriminazione diretta nei suoi confronti. E si differenzia dal Mobbing, perché mentre questo si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili del datore di lavoro che finiscono per assumere la forma di una vera e propria aggressione, di un accerchiamento del lavoratore-vittima, con un chiaro intento persecutorio e con effetto lesivi del suo equilibrio fisio-psichico e della sua personalità, nello Straining la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e distanziate nel tempo, ma tali da provocare comunque alla vittima una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa. Anche un’unica azione ostile quindi può dare luogo al danno da straining e legittimare la conseguente domanda del lavoratore di risarcimento del danno alla salute, se essa provoca conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori. E ciò può avvenire con un demansionamento, un trasferimento illegittimo, la privazione degli strumenti di lavoro, l’isolamento professionale e relazionale. 

È NECESSARIO UN INTERVENTO DEL LEGISLATORE Certo, non può negarsi che la giurisprudenza in questi anni abbia svolto un ruolo importante e apprezzabile, dando rilevanza giuridica e tutela a fattispecie che ne erano prive, andando oltre il suo compito di interpretare ed applicare la norma e sostituendosi al legislatore di cui ha colmato le carenze, delineando e quasi tipizzando le caratteristiche ed i punti essenziali di queste particolari fattispecie lavorative di tipo patologico. Ciò non toglie, tuttavia, che sia comunque necessario un intervento del legislatore con una disciplina chiara ed unitaria, per una completa, corretta e equilibrata gestione del complesso e delicato rapporto datore di lavoro/lavoratore. È necessario, infatti, che siano compiutamente individuate e disciplinate tutte le possibili situazioni di disagio lavorativo volutamente arrecato a danno dei diritti e del benessere dei lavoratori e consistenti non solo in un facere, cioè in azioni e comportamenti ostili e vessatori (come nei casi sopra esaminati), ma anche in un non facere, cioè nella assoluta passività ed indifferenza nei confronti del lavoratore, come se non esistesse affatto, con conseguente mortificazione e disconoscimento del suo lavoro e della sua personalità.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando