sabato 2 aprile 2016

MINORI: IL SELFIE PORNO, NON È REATO SE DIFFUSO DAL MINORE CHE RITRAE SÉ STESSO


Fino a pochi anni fa, la parola selfie non esisteva neppure, così come la mania di farsi autoscatti. Oggi, invece, questo termine è entrato nella quotidianità e non possiamo fare a meno di immortalare e condividere ogni istante della nostra giornata, anche quelli più intimi e privati. Il fenomeno ha ormai raggiunto dimensioni tali da indurci a riflessioni non solo etiche e morali, ma anche giuridiche, sotto il profilo della privacy (nel nostro ordinamento anche la sola immagine della persona costituisce dato personale), sotto il profilo del diritto d’autore (come negli Stati Uniti) e sotto il profilo penale. Proprio a quest’ultimo riguardo, ha suscitato opinioni contrastanti una recentissima sentenza della Corte di Cassazione che, chiamata a pronunciarsi su un caso di diffusione di un selfie di un minore a contenuto pornografico, ha escluso la configurabilità dei reati di pornografia minorile in quanto l’autore del selfie era stato lo stesso minore che poi lo aveva liberamente condiviso. Cerchiamo di capire meglio…


LA VICENDA oggetto della sentenza non rappresenta purtroppo un caso isolato. Infatti, è molto diffusa la tendenza, non solo tra i personaggi famosi ma anche tra la gente comune, di riprendersi in pose più o meno osè e condividerle pubblicamente. Solo che, nel caso in questione, l’autore ed il soggetto del selfie era un minore, che aveva poi inviato gli scatti erotici ad altri coetanei che, a loro volta, li avevano inoltrati ad altre persone, divenendo così imputati del reato di cessione di materiale pedopornografico. Sulla vicenda, il Tribunale per i Minorenni aveva dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste non essendovi quella distinzione tra il minore utilizzato e l’utilizzatore, che l’art. 600 ter del codice penale espressamente presuppone per la configurabilità del reato contestato. Nella fattispecie, infatti, le immagini erano state riprese in autoscatto direttamente dal minore, di propria iniziativa e senza l’intervento di alcuno, e poi da questi volontariamente cedute ad altri e da questi ad altri ancora. Pertanto, il minore non poteva ritenersi utilizzato per scopi pedopornografici da parte di terzi, i quali quindi non erano punibili. Non condividendo tale interpretazione, il Procuratore della Repubblica ha proposto pertanto ricorso per cassazione.

LA CORTE DI CASSAZIONE ha respinto il ricorso confermando l’interpretazione del Tribunale per i Minorenni. I giudici di legittimità, infatti, ripercorrendo ed analizzando tutta l’evoluzione e la ratio della norma del codice penale, ne forniscono un’unica interpretazione letterale che, riferita a tutte le ipotesi previste e sanzionate nei suoi commi, pone alla base della punibilità il necessario ed imprescindibile impiego strumentale del minore nella consumazione di questo delitto, quale elemento costitutivo dello stesso. Pertanto, perché il minore sia persona offesa e vada tutelata, è necessario che sia stato strumentalizzato. Sicché la punibilità della cessione è subordinata alla circostanza che il materiale pornografico sia stato realizzato da terzi, utilizzando minori, senza che le due figure di utilizzatore e di utilizzato possano in alcun modo coincidere. 

IL MATERIALE PORNOGRAFICO NON È SPEMRPE REATO Quindi, ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato non è il materiale pornografico minorile in se stesso, indipendentemente dalla sua fonte, ma che si tratti di materiale alla cui origine vi sia stato l’utilizzo del minore necessariamente da parte di un terzo con il pericolo concreto di diffusione del prodotto medesimo. Nella vicenda in esame, invece, poiché il materiale era stato realizzato e diffuso dallo stesso minore, questi quindi non poteva ritenersi utilizzato da terzi soggetti. D’altronde, che questa sia la corretta interpretazione della norma deriva secondo i giudici dal fatto che l’art. 600 ter del codice penale è stato introdotto dalla Legge n. 269/1998, con l’esplicito fine di combattere lo “sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”, in adesione ai principi della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20/11/1989 e ratificata in Italia con la Legge n. 176/1991, nonché alla dichiarazione finale della Conferenza mondiale di Stoccolma adottata il 31/08/1996 (Cassazione Penale, III sez., sentenza del 21/03/2016 n. 11675).

LA CONCLUSIONE a cui è giunta la Cassazione, come dicevo, ha suscitato opinioni e reazioni contrastanti. D’altronde, ammetto che anch’io leggendo la sentenza sono rimasta un po’ perplessa e non del tutto convinta, in quanto la valutazione fatta dai giudici, seppure obbligata dal testo della norma, mi è sembrata troppo neutrale ed asettica rispetto ad una vicenda che, se appare chiara dal punto di vista strettamente giuridico, nella realtà potrebbe essere più complessa e complicata. È vero, infatti, che in questo caso il minore ha agito volontariamente e senza essere materialmente indotto ed utilizzato da terzi, ma è altrettanto vero che, in casi come questo, potrebbe aver subito pressioni di natura psicologica o di altro tipo, che sfuggono ad una percezione e ad una verifica materiale. Non dimentichiamo, infatti, che la categoria del “minore di anni diciotto” a cui si riferisce la norma del codice penale racchiude in sé una ampia platea di soggetti possibili vittime, che, come ha espressamente dichiarato la Convenzione sui diritti del fanciullo, necessitano di protezioni e cure particolari a causa della loro mancanza di maturità fisica ed intellettuale. D’altra parte, oggi, si è molto abbassata l’età media dei ragazzi che utilizzano smartphone e social media e che, quindi, potrebbero realizzare e condividere selfie di questo tipo.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando