lunedì 24 novembre 2014

DANNATO PAVÉ! SE CADI PERCHÉ DISSESTATO IL COMUNE TI RISARCISCE


Qualche tempo fa, ad una nostra cliente è capitato di imbattersi in una brutta avventura. A causa della pavimentazione stradale dissestata, e in particolare dopo aver appoggiato il piede su un massetto di pavé apparentemente in ordine ma risultato poi traballante, è rovinosamente scivolata e caduta a terra. A seguito di tale evento la signora ha riportato lesioni sia alle gambe, sia al volto di un certo rilievo, particolarmente fastidiose anche in ragione dell’età, non più giovanissima e dunque con una capacità di recupero delle funzioni motorie assai più lenta rispetto ad un individuo di giovane età. Questo episodio, purtroppo, si aggiunge ad una lunga, anzi lunghissima, serie di accadimenti simili, tale per cui, ormai, nel corso degli anni si è consolidato un orientamento giurisprudenziale costante volto a sensibilizzare gli Enti locali alla corretta e periodica manutenzione del manto stradale, pena la condanna al risarcimento dei danni patiti dagli utenti della strada, specie quando tali circostanze risultano occulte anche ai più avveduti. In tal senso, la Corte di Cassazione ha recentemente confermato il principio per il quale spetta al Comune l’onere di adoperarsi affinché il manto stradale sia manutenuto in condizioni di sicurezza per i cittadini. Ma vediamo ora nel dettaglio i risvolti giuridici della questione… 

IL COMUNE È RESPONSABILE SE… Nella sentenza in questione la Suprema Corte ha nuovamente affermato che laddove un pedone cada accidentalmente a causa della pavimentazione stradale instabile, peraltro né visibile né segnalata, si ha presunzione di responsabilità in capo al Comune, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 2051 del codice civile, il quale stabilisce che: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. In altre parole, la responsabilità in capo al Comune deriva dal fatto che spetta al medesimo porre in essere tutte le opportune attività affinché i cittadini, non solo possano fruire dei beni demaniali in sicurezza, ma vengano informati, in caso di insidia, del pericolo stesso. In ragione di ciò, quindi, l’Ente pubblico è responsabile non solo perché non ha provveduto ad una corretta manutenzione della strada, ma anche perché non si è preoccupato di segnalare opportunamente il pericolo, divenuto insidia per l’ignaro cittadino (Cassazione civile, Sezione VI - 3, Sentenza del 23 ottobre 2014, n. 22528).

…MA NON RISARCISCE SE LA CADUTA È FORTUITA Ciò accade tutte le volte in cui si verifichi un avvenimento che escluda, anche a causa del comportamento del pedone, il nesso di causalità (vale a dire il collegamento causale) tra condotta (omessa segnalazione o manutenzione) ed evento dannoso (caduta del cittadino). Un evento che interrompe il nesso causale è per esempio quello in cui il pedone sia distratto e non presti attenzione, in condizioni ottimali di visibilità, alla strada dissestata e per tale circostanza inciampi. In ogni caso, spetta al Comune dimostrare che la caduta si è verificata per caso fortuito o per colpa del danneggiato. Nel nostro caso, infatti, la Corte ha giustamente affermato che non rientra nell’ipotesi di caso fortuito “il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”. In tema di danno da insidia, peraltro, già dalla storica sentenza della Corte Costituzionale, n. 156 del 1999, risultava pacifica la responsabilità della Pubblica Amministrazione per ogni atto o fatto illecito connesso con gli obblighi cui è tenuta quale proprietaria ed incaricata della gestione del bene, nel nostro caso il manto stradale, la cui manutenzione, ovviamente, è di spettanza degli Enti locali. Ne discende, quindi, che il pedone è tenuto unicamente a provare il nesso causale tra la caduta e i danni riportati (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 20 gennaio 2014, n. 999; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 22 settembre 2009, n. 20415). 

IN CASO DI RESPONSABILITÀ DEL COMUNE, QUALI DANNI SONO RISARCIBILI? Innanzitutto, non si può non parlare del cosiddetto danno biologico subito dal malcapitato pedone in conseguenza della caduta, inteso quale menomazione della complessiva integrità psico-fisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore umano in tutta la sua concreta dimensione, la quale non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega, altresì, alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale e culturale. Inoltre, laddove il danneggiato lavorasse, bisognerebbe valutare anche il danno patrimoniale, dal momento che a seconda della gravità delle lesioni subite lo stesso si troverà nell’impossibilità di lavorare e, quindi, di produrre reddito. Ciò significa che a seconda della tipologia di impiego svolto, si avranno delle incidenze economiche negative differenti, valutabili quali danno patrimoniale nella forma del danno emergente (spese) e del lucro cessante. 

E SE IL DANNEGGIATO È UNA CASALINGA? Anche in questo caso, poi, è configurabile un danno da riduzione della capacità di lavoro, in quanto dottrina e giurisprudenza sono ormai concordi nel qualificare la posizione della casalinga come ruolo di assoluto rilievo nel contesto familiare. In particolare, si tratta di un’attività che ha indubbiamente valenza economica in quanto le faccende domestiche svolte dalla casalinga possono in linea di principio essere surrogate da una collaboratrice domestica; ciò significa che il danno patrimoniale patito dalla casalinga per l’impossibilità e la difficoltà a svolgere tali attività può tendenzialmente essere parametrato proprio alla retribuzione da corrispondere alla collaboratrice domestica. Tale attività riveste, altresì, profili non patrimoniali che meritano anch’essi di essere risarciti: basti pensare a quegli aspetti relativi all’attività di coordinamento e conduzione della vita familiare che, di certo, non possono essere “acquistati” mediante la prestazione di una collaboratrice domestica, che affondano le radici in affetti familiari non dipendenti da alcuna controprestazione. Sul punto, la giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che “il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che – come la casalinga - provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale e non biologico. Ne consegue che chi invoca tale danno ha l’onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico” (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 6 agosto 2013, n. 18659; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza dell’11 novembre 2011, n. 23573). 

IN CONCLUSIONE… la sentenza, lontana dall’essere innovativa in quanto si allinea perfettamente al prevalente orientamento della giurisprudenza, è comunque interessante ed eticamente condivisibile, dal momento che rappresenta una delle poche certezze, ahimè, sulle quali il cittadino può contare laddove si trovi a dover far valere le proprie ragioni nei confronti della Pubblica Amministrazione. Peraltro, proprio in virtù del principio più volte ribadito, sarebbe auspicabile che gli enti territoriali ponessero maggiore attenzione alla cura dei beni demaniali e mostrassero più sensibilità nei confronti di tutti quei cittadini che incolpevolmente restano vittime delle omissioni e delle negligenze dei loro stessi rappresentanti.


Dottoressa Roberta Bonazzoli – Studio Comite