I Vitelloni di Federico Fellini (1953) |
Traggo spunto dalle discussioni di questi giorni, in tema di riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e dell’ormai noto Jobs Act (o Piano per il Lavoro), per affrontare la questione relativa all’obbligo di reintegrazione del lavoratore, che il governo, in linea con le aspettative degli Stati membri dell’Unione Europea e con le legislazioni interne degli stessi, vorrebbe sopprimere, ritenendolo anticostituzionale. Vorrei, in particolare, soffermarmi sul caso in cui questa venga attuata ma in una sede lavorativa diversa da quella originaria. Sulla legittimità di tale modalità di reintegra è tornata, infatti, recentemente la Suprema Corte, che ha, di fatto, confermato diverse precedenti pronunce anche di giudici di merito. Ma non perdiamo tempo e occupiamoci subito del caso analizzato dalla Cassazione…
REINTEGRATO SI, MA DOVE… Una società era stata condannata alla reintegrazione di un lavoratore sul posto di lavoro, in quanto il Giudice, su richiesta del lavoratore, aveva ritenuto nullo il termine apposto alla durata del contratto sottoscritto dalle parti. Il lavoratore, infatti, nel corso della causa portata all’attenzione del giudice era riuscito a dimostrare che il licenziamento, effettuato dalla società, era illegittimo e che il contratto in questione non era a tempo determinato, vale a dire a temine allo scadere di un determinato periodo, bensì indeterminato quanto a durata e, quindi, destinato a cessare solo per cause diverse. A questo punto la società, datrice di lavoro, ottemperava al predetto obbligo di reintegra invitando il lavoratore a riprendere servizio, ma in una sede diversa da quella originaria.
NELLA NUOVA SEDE PROPRIO NO! Una volta ricevuta dall’azienda la comunicazione di reintegra ma in una sede diversa da quella originaria, il lavoratore decideva di non presentarsi, ritenendo illegittima la condotta della stessa in relazione a quanto ordinato dal Giudice. La società, allora, non vedendo il lavoratore nella nuova sede, coglieva l’occasione per licenziare il lavoratore per giusta causa, motivando il recesso con l’assenza ingiustificata dal lavoro. Al lavoratore non rimaneva, dunque, altro da fare che instaurare un ulteriore contenzioso con il proprio datore di lavoro impugnando nuovamente il licenziamento, ritenendolo nuovamente illegittimo.
SI VA IN GIUDIZIO! Ebbene, il Giudice del Lavoro accoglieva pienamente il ricorso del lavoratore, non solo in primo grado, ma anche in sede di appello. In particolare, i giudici rilevavano che il reintegrare il lavoratore in una diversa sede, configurava un inadempimento contrattuale determinando un trasferimento illegittimo o, comunque, l’inosservanza dell’ordine giudiziale di riammissione nel posto originario, per cui il comportamento del lavoratore doveva considerarsi giustificato ed il licenziamento, conseguentemente, nullo.
FINO IN CASSAZIONE Avverso la sentenza di secondo grado (appello) il datore di lavoro presentava ricorso in Cassazione che, tuttavia, ribadiva il seguente granitico principio qui riportato in sintesi: l’ottemperanza datoriale all’ordine del giudice ex art.18 della Legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei Lavoratori) di riammettere in servizio un lavoratore a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, implica il ripristino della originaria posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve, quindi, avvenire nel luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale deve intendersi come mai cessato (Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 10 giugno 2014, n. 13060). Tale decisione è peraltro conforme a molte altre emesse sullo stesso tema (Cassazione civile, Sezione VI Lavoro, Ordinanza del 12 dicembre 2013, n. 27804; Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 16 maggio 2013, n. 11927; Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 30 dicembre 2009, n. 27844).
IL TRASFERIMENTO VA COMUNICATO CON LETTERA E VA SEMPRE MOTIVATO Le argomentazioni e deduzioni poste alla base delle decisioni dei giudici di merito e del Supremo Collegio, sono senza alcun dubbio, pienamente condivisibili, oltre che fondate su ineccepibili criteri interpretativi. Peraltro, non ci si può esimere dal rilevare che comunque, ai sensi dell’art. 2103 del codice civile (art.13 della legge n. 300/1070), il datore di lavoro, nei casi in cui decide di riammettere in servizio il lavoratore in un posto di lavoro diverso da quello originario, ma pur sempre allocato nell’ambito della stessa unità produttiva, deve inviare al lavoratore il formale invito, ovvero deve comunicarglielo per iscritto, a riprendere servizio, motivando le ragioni obiettive per le quali riassegna il lavoratore a un posto di lavoro diverso da quello originario. Tali ragioni devono essere obiettive e non soggettive e devono essere tali da consentire al lavoratore, eventualmente anche in sede giudiziaria, di verificare l’eventuale inadempienza del datore al rispetto degli obblighi di agire secondo buona fede (art.1375 c.c.) e correttezza (art.1175 c.c.), doveri che il legislatore accolla ad ogni soggetto nell’esecuzione di un contratto.
NESSUN OBBLIGO A RISPETTARE ORDINI ILLEGITTIMI Dalla sentenza in esame, discende, altresì, l’ulteriore importante principio civilistico, in ambito lavorativo, secondo cui: gli atti illegittimi del datore di lavoro possono essere lecitamente disattesi dal dipendente, senza conseguenze sul piano disciplinare, secondo quanto previsto dall’art. 1460 del codice civile.
IL DOPO FORNERO La Legge del 28 giugno 2012, n. 92, meglio nota a tutti come Riforma Fornero, dal nome del ministro che la sottoscrisse, ha ammorbidito un po’ le tutele dei lavoratori con riguardo all’obbligo di reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento, eliminando tale obbligo nel caso in cui i licenziamenti ingiusti derivino da motivazioni economiche. In questi casi, dunque, chi viene lasciato a casa ingiustamente ha diritto non più a riprendere il lavoro alle medesime condizioni precedenti il licenziamento ma solo ad un risarcimento in denaro. L’obbligo di reintegro resta solo per i licenziamenti discriminatori (dovuti a pregiudizi razziali o politici nei confronti del dipendente) mentre per i licenziamenti disciplinari (legati, per esempio, a scarso rendimento o a insubordinazione) viene lasciato un margine di discrezionalità al giudice, che può decidere se reintegrare o meno il lavoratore nell’organico dell’azienda, qualora si accerti che il dipendente è stato lasciato a casa senza una valida ragione.
Avv. Roberto Carniel – Studio Comite