Gli ultimi dati ci dicono che in Italia il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è salito al 44,2% (dato più alto dal 1977 ad oggi) e che la disoccupazione generale si attesta al 12,3%. I dati sono a dir poco allarmanti! Cosa fare? Tutti sembrano d’accordo con l’affermare che è assolutamente necessario adottare misure urgenti tese a favorire investimenti in Italia, che bisogna far ripartire la domanda interna e così via. È invece sul “come” che vi sono notevoli divergenze…
ARRIVA IL JOBS ACT! Su questo punto l’idea dell’attuale Governo, tramite il noto Jobs act (alla luce, peraltro, dell’imbarazzante dimestichezza con l’inglese da parte del Presidente del Consiglio suggerirei, con estremo affetto e simpatia, l’utilizzo del vocabolario italiano) sembra chiara per la sua irragionevolezza ed assurdità: togliere un po’ di diritti a chi ha un lavoro fisso per darne di più a chi è attualmente precario. E anche un bambino dell’asilo a questo punto formulerebbe la seguente domanda, che peraltro è anche quella del sottoscritto: per quale motivo non è possibile dare più diritti a chi è attualmente precario senza togliere diritti a chi ha un posto fisso? Ebbene, stranamente, sembra che nel nostro Paese (in cui vige quotidianamente il diktat di Bruxelles), ogni e qualsiasi riforma volta alla creazione di posti di lavoro debba necessariamente passare attraverso l’attacco frontale all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, o meglio, dovrei dire di quel che ne rimane dopo la Legge n. 92 del 2012 tristemente nota come Legge Fornero. Ma procediamo con ordine e vediamo in sintesi quali sono state le modifiche apportate all’articolo. 18.
CORREVA L’ANNO 1970… Come è noto, l’articolo 18 fece la sua prima comparsa con la legge del 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori) che, in estrema sintesi, era costituito da un insieme di norme volte a disciplinare la tutela della libertà dei lavoratori e dell’attività sindacale introducendo importanti principi di non discriminazione in ambito lavorativo. L’articolo 18, in particolare, si trovava e si trova collocato all’interno del Titolo II dedicato alla libertà sindacale: nella sua originaria versione stabiliva il seguente e sacrosanto principio giuridico, ovvero che, in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore doveva essere reintegrato nel posto di lavoro. In altre parole, l’effetto automatico del licenziamento illegittimo era la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ordinata dal Giudice. Tale regola valeva, tuttavia, allora, come oggi, per le imprese con più di 15 dipendenti. Così stabiliva sul punto l’art. 18 “il Giudice con sentenza dichiara inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ed ordina al datore di lavoro di stabilimento che occupa più di 15 dipendenti di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
REINTEGRAZIONE, RISARCIMENTO, VERSAMENTO E INDENNIZZO Oltre alla reintegrazione del lavoratore nello stesso posto di lavoro con il medesimo trattamento economico, veniva disposto altresì, un risarcimento dei danni (equivalente, in genere, allo stipendio non percepito) e l’obbligo per il datore di lavoro di mettersi in regola con il pagamento dei contributi che non erano stati versati nel periodo del licenziamento. Inoltre, il lavoratore, a sua scelta, poteva chiedere un’indennità, alternativa al reintegro, ovvero una somma corrispondente a 15 mesi di stipendio nel caso in cui, appunto non avesse voluto più rientrare sul posto di lavoro.
IL REFERENDUM DEL 2000: L’ART. 18 NON SI TOCCA! Forse molti non si ricordano ma nel 2000 era stato indetto un referendum per chiedere agli italiani se fossero o meno favorevoli all’abolizione dell’art. 18. Il referendum non raggiunse il quorum necessario ma, comunque, il 66,4% dei votanti votò contro l’abolizione dell’articolo 18.
ANNO 2012… LA RIFORMA FORNERO Recentemente, con la Legge n. 92 del 2012 è stato modificato, (demolito), il testo dell’articolo 18. Fondamentalmente, con questa legge, è stato superato l’automatismo tra licenziamento ritenuto illegittimo e reintegrazione del lavoratore, distinguendo il licenziamento in tre figure: discriminatorio, disciplinare ed economico.
L’UNICA VERA TUTELA RIMASTA: IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO Solo nel caso di licenziamento discriminatorio (ad es. per ragioni di credo politico, fede religiosa, appartenenza ad un sindacato, sesso, età ecc..), vengono applicate le conseguenze originariamente previste per l’articolo 18: l’atto viene dichiarato nullo con applicazione della sanzione massima della reintegrazione con risarcimento integrale di tutte le mensilità perdute e contributi non versati. Le medesime regole valgono anche nei casi particolari di licenziamento orale, in concomitanza di matrimonio, maternità o paternità.
IN CASO DI LICENZIAMENTO DISCIPLINARE… (ovvero motivato dal comportamento del lavoratore), se questo risulta illegittimo, è il Giudice a decidere se applicare la sanzione della reintegrazione con risarcimento limitato nel massimo a 12 mensilità oppure solo il pagamento di un’indennità risarcitoria, tra le 12 e le 24 mensilità, senza versamento contributivo.
…O DI LICENZIAMENTO ECONOMICO motivato dal “giustificato motivo oggettivo”, derivante cioè, da ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa. Anche in questo caso se il Giudice accerta che il licenziamento è illegittimo, può condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura ridotta (da 12 a 24 mensilità). Solo se ritiene l’atto manifestamente infondato applica la reintegrazione del lavoratore.
LICENZIO ERGO ASSUMO L’articolo 18 nella sua versione originaria era nato come fulcro di un diritto fondamentale che doveva semmai essere esteso a tutti i lavoratori, ovvero impedire i licenziamenti illegittimi ed evitare che il diritto ad essere reintegrato nel proprio posto di lavoro potesse essere oggetto di mera mercificazione. Chi dice che l’articolo 18 non permette di licenziare, mente sapendo di mentire! Sia i CCNL che le leggi italiane non impediscono a nessun datore di lavoro di licenziare nei casi in cui esiste un legittimo motivo. Rimango, peraltro, basito quando sento affermare, da alcuni, che il dibattito sull’art. 18 è marginale, privo di rilievo, in quanto le imprese con più di 15 dipendenti sono solo il 3% del totale. Ebbene e quindi cosa si fa? Invece di cercare di estendere a tutti le tutele di cui attualmente beneficia una minoranza di lavoratori, si riducono drasticamente anche i diritti di questi ultimi. E qual è il risultato di ciò? Semplice! L’equilibrio dei poteri tra dipendente e datore di lavoro si sposta sempre di più dalla parte di quest’ultimo, sapendo bene di avere in mano il potere di licenziare anche in assenza di un motivo legittimo.
DI CONSEGUENZA il lavoratore, in ogni trattativa, sapendo di poter essere licenziato anche senza giusta causa, si troverà in una posizione di forte costrizione nei confronti del datore di lavoro. Del resto, sono proprio le recenti parole del Presidente del Consiglio Matteo Renzi a confermare quanto sopra, quando afferma, in preda al suo perenne e tedioso egocentrismo, che non vuole “che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all’imprenditore”.
Avv. Roberto Carniel – Studio Comite