lunedì 6 gennaio 2014

SMETTI DI FARTI MANTENERE! LO DICO PER IL TUO BENE (?)



Iniziamo l’anno affrontando la questione che mi ha sottoposto Anna la quale, separata da vent’anni e divorziata da quindici, con una figlia trentadue, Chiara, ancora studentessa, specializzanda in medicina, incalzata dall’ex marito, Guido, intende sapere se effettivamente rischia di perdere il contributo al mantenimento per la “bimba” vista l’età, ormai ampiamente adulta. Anna (farmacista) e Guido (architetto) per la verità hanno mantenuto dei rapporti abbastanza distesi, nonostante la crisi della relazione che ha poi portato ad una separazione concordata e a un divorzio senza particolari conflitti. Tuttavia di recente Guido non perde occasione per far notare alla ex moglie che sarebbe ora che Chiara desse segno di voler prendere in mano le redini della propria vita cominciando a gestirsi, anche economicamente, in modo autonomo. Guido sottolinea che Chiara, quando vuole, riesce a guadagnare discrete sommette, anche se con lavori precari, senza trascurare gli studi scelti che, per quanto impegnativi, non possono continuare a incidere sulle tasche di entrambi i genitori. Quindi…


LO DICE PER IL SUO BENEInsomma, anche per il suo bene, sarebbe ora che smettesse di farsi mantenere”, dice il papà. Anna, pur consapevole dell’età avanzata di Chiara, ritiene, tuttavia, che in questo cambio di rotta ci sia lo zampino dell’attuale compagna di Guido, in attesa del secondo pargolo, che vedendosi sottrarre la discreta sommetta di euro 800,00 mensili dal ménage familiare è chiaramente un tantino inacidita. Anna mi domanda, dunque, se il fatto che Chiara, in alcuni brevi periodi, guadagni qualche soldino e talvolta riceva in dono dai nonni delle mancette, possa determinare l’accoglimento della minacciata domanda giudiziale di riduzione del contributo al mantenimento o addirittura l’annullamento di quest’ultimo. Teme, infine, di perdere l’assegnazione della casa familiare, concordata nell’interesse di Chiara in sede di separazione e confermata con il divorzio, in virtù del fatto che quest’ultima ogni tanto trascorre qualche giorno a casa del fidanzato.

LAUREA II° LIVELLO, REDDITO MINIMO, LAVORO PRECARIO Va precisato che Chiara si è laureata all’età di ventinove anni in medicina e chirurgia e attualmente si è iscritta ad un corso di laurea, di 2° livello, in biologia cellulare e molecolare, in attesa di un bando per l’ammissione alla scuola di specializzazione medica confacente alle sue aspirazioni (ricercatrice). Ogni tanto, in modo saltuario e non stabile, accetta incarichi di tutoraggio, in materie scientifiche, a studenti di scuola superiore con ricavi variabili e comunque non superiori a euro 400 mensili e quindi per un ammontare complessivo annuo di circa 3.500/4.000 euro. 

LA LEGGE DICE, SE LI FAI… Va innanzitutto detto che l’obbligo gravante in capo ai genitori di mantenere la prole discende dall’art. 147 del codice civile il quale rubricato con il titolo di “Doveri verso i figli” dispone che “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. Anche se la norma fa riferimento ai figli nati durante il matrimonio, oggi, dopo l’equiparazione dei figli naturali a quelli legittimi operata con la Legge 219/2012, si può dire che tali obblighi sorgano sempre a favore dei figli e a carico dei genitori che siano uniti o meno in matrimonio. Coerentemente al disposto dell’art. 147, nelle ipotesi di crisi della famiglia, l’art. 155 del codice civile rubricato con il titolo di “Provvedimenti riguardo ai figli” stabilisce che “… il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi (…) Per realizzare tali finalità il giudice che pronuncia la separazione dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. (…)  fissando la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. (...) ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore …”. Ancora l’art. 155 quater detta la disciplina sul godimento della casa familiare stabilendo che “(…) è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli (…)”. Quanto ai figli maggiorenni l’art. 155 quinquies, dispone che “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori”.

ALLA PORTA SOLO SE ECONOMICAMENTE AUTONOMI Secondo la più recente giurisprudenza la percezione di somme così come quelle che ricava Chiara, decisamente risibili, con le modalità indicate, non rappresenta elemento idoneo a incidere sul dovere di contribuzione del genitore non convivente (Guido). E, infatti, i giudici di piazza Cavour, nell’affrontare questioni analoghe, hanno ribadito il principio secondo cui “l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione (in tal senso, le pronunce 15756/2006, 22214/2004, 4765/2002)” (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 9 maggio 2013, n. 11020; Cassazione civile Sezione I, Sentenza dell’8 febbraio 2012, n. 1773; Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 26 gennaio 2011, n. 1830).

CON CONTRATTO E REDDITO ADEGUATO Nel senso sopra indicato si era già espressa la Cassazione in altra sentenza in cui si sottolineava che “il conseguimento di emolumenti percepiti in via precaria come una borsa di studio universitaria o altri compensi attribuiti in vista dell’apprendimento di una professione per la loro stessa natura, consistenza e temporaneità non è equiparabile agli ordinari rapporti di lavoro subordinato, onde, non essendo sufficiente il mero godimento di un reddito quale che sia, occorre altresì la prova della loro adeguatezza ad assicurare al figlio, anche con riferimento alla durata del rapporto in futuro, la completa autosufficienza economica (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 14 aprile 2010, n. 8954). Gli incarichi di tutoraggio, ovvero di assistenza allo studio per allievi di scuola superiore, per la loro natura saltuaria volta a sopperire le esigenze contingenti degli studenti e per l’esiguità delle somme ottenute, non possono, dunque, essere equiparati ai “contratti di formazione” previsti durante il periodo di specializzazione dei medici che, seppur precari, si contraddistinguono per una retribuzione di entità indubbiamente superiore e ritenuta idonea ad assicurare l’autosufficienza economica. La Suprema Corte, in quest’ultimo caso ha infatti ritenuto sussistenti gli elementi di diritto per la revoca della contribuzione al mantenimento poiché “tale contratto di specializzazione non si esaurisce nell’approfondimento culturale, ma si completa con prestazioni analoghe a quelle del personale dipendente, con obbligo per lo Stato di adeguata remunerazione (Cassazione n. 1182 del 2012), di tal che non è riconducibile ad una semplice borsa di studio” (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 8 agosto 2013, n. 18974).

CHIARA NON E’ UNA BAMBOCCIONA Indubbiamente non si tratta di una figlia maggiorenne che ha scelto un percorso di studi lungo e impegnativo unicamente per sottrarsi all’impegno di un’attività lavorativa che farebbe cessare l’obbligo di mantenimento da parte di entrambi i genitori. Si tratta piuttosto di un’adulta che ha operato una scelta coraggiosa che comporta il sacrificio di non potersi affrancare completamente. I risultati scolastici lo confermano. Il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica in capo alla figlia di Anna e Guido è, dunque, giustificato e incolpevole. Solo nel caso contrario, infatti, gli ermellini coerentemente, nell’ipotesi di inerzia colpevole a reperire un’attività di lavoro o rifiuto non giustificato, hanno stabilito che può essere revocato l’assegno di mantenimento (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 30 ottobre 2013, n. 24493; Cassazione civile, Sezione VI - 1, Ordinanza del 2 aprile 2013, n. 7970; Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 26 settembre 2011, n. 19589 ).

I REGALI DEI NONNI NON CONTANO Anna può star tranquilla anche su questo punto. I doni e le piccole mance che ogni tanto Chiara riceve dai nonni non sono equiparabili ad un reddito da attività economica e, quindi, non possono essere addotti dal padre quale causa di riduzione o estinzione del mantenimento considerato che i nonni, o altri soggetti terzi, non sono giuridicamente obbligati al mantenimento (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza dell’11 settembre 2012, n. 15162). Cosa diversa sarebbe se Chiara godesse del reddito derivante dalla messa a frutto di un immobile a lei intestato; in tale caso i giudici della cassazione hanno ritenuto che tale ricavo configuri elemento sufficiente per il raggiungimento dell’indipendenza economica (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 6 dicembre 2013, n. 27377).

SE POI LA CONVIVENZA E’ STABILE E ABITUALE… Anche in relazione all’assegnazione della casa familiare attribuita ad Anna “nell’interesse di Chiara” va precisato, così come dispone la norma, che Guido potrà pretendere la revoca di tale condizione nella sola circostanza in cui la convivenza di Chiara non sia più stabile e abituale. Il soggiorno, per brevi periodi, a casa del fidanzato non configura dunque un ipotesi di perdita di tale prerogativa così come in capo ad Anna permarrà il diritto autonomo e concorrente con quello di Chiara, a percepire il contributo al mantenimento da parte di Guido, poiché la “stabile convivenza” comporta che sia proprio Anna a sopperire quotidianamente alle esigenze della figlia. Il suo è, dunque, un diritto alla rifusione delle spese che ordinariamente sostiene per il mantenimento di Chiara (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza dell’11 novembre 2013, n. 25300).