lunedì 15 luglio 2013

MAI DIRE PAESE DI EMME



Nei giorni passati molto si è discusso sulla sentenza della Corte di Cassazione Penale che ha confermato, le precedenti pronunce del Tribunale e della Corte di Appello di Campobasso che avevano condannato un settantenne fermato dai carabinieri perché conduceva un’autovettura con un faro non funzionante. L’uomo, visibilmente arrabbiato, in quel frangente aveva pronunciato l’espressione “cose che capitano in questo schifo di Italia di m….”


Il reato contestato è stato quello di vilipendio alla nazione previsto e punito dall’art. 291 del codice penale il quale, così come modificato dalla Legge 85 del 2006, recita “Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000”. La succitata Legge ha depenalizzato il reato eliminando la pena detentiva e sostituendola con una pena pecuniaria così come è accaduto per tutti i reati di opinione meglio definiti come “delitti contro la personalità dello Stato”.

Perché il reato sussista occorre che lo stesso sia stato commesso in luogo pubblico ed alla presenza di più persone, elementi questi che senza dubbio sussistevano nella fattispecie esaminata dagli ermellini. Non solo, occorre altresì che sia l’elemento oggettivo sia quello soggettivo siano presenti contestualmente. 

Ciò significa che la Corte ha confermato le precedenti pronunce ritenendo che sussistesse l’elemento oggettivo, “per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l’onore della collettività nazionale”; quanto al profilo soggettivo ha ritenuto che fosse integrato dal dolo generico, ossia "dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall’autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l’agente a compiere l’atto di vilipendio”.

Ancora la Corte precisa che il reato in esame: “Non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l’offesa alla nazione, cioè un’espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l’onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall’autore”.  Come sopra accennato i reati di vilipendio, ovvero del Presidente della Repubblica (art. 278), della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate (art. 290), alla nazione italiana (art. 291), alla bandiera italiana (art. 292), di bandiera o emblema di Stato estero (art. 299), della religione (art. 403-404), delle tombe (art. 408) e di cadavere (art. 410), previsti già dal codice Zanardelli furono inseriti anche nel codice Rocco come delitti contro la personalità dello Stato.

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale tali fattispecie apparvero come reati di mera opinione, contrari dunque al principio di libertà di manifestazione del pensiero. Tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’interesse al prestigio delle istituzioni avesse rilievo costituzionale, dando così piena legittimità ai reati in questione anche all’interno del nuovo regime democratico.

La Corte di Cassazione, nell’ambito delle proprie competenze, ha pertanto fatto applicazione di principi di diritto, che pur destando critiche e malumori, specie per la contingenza sociale, politica ed economica che si sta vivendo, risultano coerenti con il vigente stato di diritto. Certo sarebbe forse auspicabile porre mano al sistema normativo adeguandolo alla più ampia accezione che ha acquisito il diritto di libera manifestazione del pensiero, ma questa è un’altra storia e riguarda il futuro.....