giovedì 21 giugno 2018

SALUTE: L’INVIOLABILE DIRITTO DI MORIRE



Il 6 aprile scorso il dottor Giovanni Spinnato, medico primario, è stato condannato a un mese di reclusione per violenza privata dal giudice monocratico del Tribunale di Termini Imerese, per aver praticato un trattamento sanitario contro l’espressa volontà di una paziente. Il deposito delle motivazioni della recente sentenza, che aveva anche disposto una provvisionale risarcitoria di diecimila euro, oltre al rimborso delle spese di lite pari a cinquemila euro, ha riportato il caso all’attenzione della cronaca giudiziaria e riaperto il dibattito sulla questione del diritto all’autodeterminazione dell’individuo. Diritto, garantito dal nostro ordinamento giuridico e da principi sovranazionali e che consiste nella facoltà di ognuno di rifiutare la prestazione sanitaria, sia essa diagnostica, terapeutica e salva vita o di revocare il consenso già prestato. Ma come si concilia questo inviolabile diritto con il dovere del medico di salvare la vita di un ammalato quando questa è in pericolo? Una riflessione pare doverosa…

IL CASO: UNA QUESTIONE DI VITA O DI FEDE... Il caso risale al 2010 e riguarda una ventiquattrenne testimone di Geova in stato di gravidanza, ricoverata all’ospedale Cimino per una minaccia di aborto. Dopo un primo esame, che si era concluso positivamente, era ritornata per nuove complicazioni. A questo punto i medici constatarono che il feto era senza vita e per questo era necessaria l’asportazione. La giovane donna, tuttavia, negò l’autorizzazione a ogni trasfusione di sangue che sarebbe stata contraria ai principi del suo credo religioso. La trasfusione, invece fu praticata ugualmente poiché il medico aveva ritenuto che ci fosse un pericolo anche per lei. Le motivazioni della sentenza, spiegano che il medico primario “…aveva cercato di aggirare il rifiuto della paziente chiedendo l’autorizzazione al pubblico ministero con la motivazione che la trasfusione coatta era necessaria per salvare la paziente e il feto (che invece era già stato dichiarato morto). La paziente in questione, invece, non era mai stata in pericolo di vita, dicono i magistrati, ed era sempre rimasta “cosciente, lucida e nel pieno delle sue capacità”. Per praticare la trasfusione, infatti, “era stato necessario che due infermieri immobilizzassero la giovane donna, che in lacrime continuava a opporsi a quel trattamento”, come afferma una nota dei testimoni di Geova.

LA REPUBBLICA TUTELA, L’INDIVIDUO SCEGLIE LIBERAMENTE L’articolo 32 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” Aggiungendo, al secondo comma, “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione sono diritti soggettivi assoluti ovvero diritti che possono essere fatti valere nei confronti di chiunque e di cui tutti coloro che non sono titolari hanno l’obbligo di rispettarne le facoltà proprie. Il rifiuto alle cure è, quindi, una declinazione del diritto di scegliere liberamente se sottoporsi a un determinato trattamento sanitario. Tale diritto viene riconosciuto anche in ambito sovranazionale in particolare va richiamata la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (Convenzione di Oviedo), la quale all’art. 5, comma 1, prevede che un intervento nel campo della salute non possa essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato.

LO DICE ANCHE IL CODICE DEONTOLOGICO Anche la deontologia medica tutela il diritto a rifiutare un trattamento sanitario poiché contiene norme che stabiliscono l’obbligo per il medico di attenersi, nel rispetto del carattere autonomo e indipendente proprio della sua funzione, alla volontà liberamente espressa della persona che deve essere curata, sottolineando per lo più le modalità in cui il personale sanitario deve agire in modo che sia garantito il rispetto della dignità, della libertà e autonomia del paziente.

E IN ASSENZA DI CONSENSO INFORMATO? La recente Legge n. 219 del 2017 rafforza il valore del consenso informato, prestato dal paziente e recepisce la necessità di bilanciare il diritto alla salute e relativo diritto a non essere curati con l’indisponibilità del bene vita. L’impianto normativo costituisce un giusto compromesso che da un lato affida alla libertà di autodeterminazione un ruolo preminente, dall’altro mantiene la garanzia costituzionale. In questo contesto il consenso informato si identifica come consenso qualificato del paziente a un certo esame diagnostico piuttosto che a un trattamento terapeutico o intervento chirurgico, cui è attribuito il valore di condizione di liceità dell’attività medico-chirurgica. Da un punto di vista prettamente giuridico, il consenso informato integra una causa di giustificazione posto che la validità della sua prestazione esclude rilevanza penale all’intervento del medico. In altre parole l’informazione finalizzata all’acquisizione del consenso diventa parametro di valutazione della liceità dell’atto medico. Se, dunque, il sanitario interviene sul paziente in assenza di consenso informato ovvero a fronte di un consenso invalido, determina una violazione di precetti penali, posti a tutela dell’integrità psicofisica e della libertà personale del soggetto.

È INDISPENSABILE quindi, che il medico o l’équipe sanitaria, fatte salve le situazioni di emergenza o di urgenza, assicurino le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le condizioni cliniche di quest’ultimo e le circostanze consentano di recepirla. Ogni deviazione rispetto a tale principio espone i clinici a precise responsabilità civili e penali.

Avvocato Patrizia Comite – Studio Comite