Il 6 aprile scorso il
dottor Giovanni Spinnato, medico primario, è stato condannato a un mese di
reclusione per violenza privata dal giudice monocratico del Tribunale di
Termini Imerese, per aver praticato un trattamento sanitario contro l’espressa
volontà di una paziente. Il deposito delle motivazioni della recente sentenza, che
aveva anche disposto una provvisionale risarcitoria di diecimila euro, oltre al
rimborso delle spese di lite pari a cinquemila euro, ha riportato il caso
all’attenzione della cronaca giudiziaria e riaperto il dibattito sulla
questione del diritto all’autodeterminazione dell’individuo. Diritto, garantito
dal nostro ordinamento giuridico e da principi sovranazionali e che consiste
nella facoltà di ognuno di rifiutare la prestazione sanitaria, sia essa diagnostica, terapeutica e salva vita o di revocare il consenso già prestato.
Ma come si concilia questo inviolabile diritto con il dovere del medico di
salvare la vita di un ammalato quando questa è in pericolo? Una riflessione
pare doverosa…
IL CASO: UNA QUESTIONE
DI VITA O DI FEDE... Il
caso risale al 2010 e riguarda una ventiquattrenne testimone di Geova in stato di gravidanza, ricoverata all’ospedale
Cimino per una minaccia di aborto. Dopo un primo esame, che si era concluso
positivamente, era ritornata per nuove complicazioni. A questo punto i medici
constatarono che il feto era senza vita e per questo era necessaria l’asportazione.
La giovane donna, tuttavia, negò l’autorizzazione a ogni trasfusione di sangue che
sarebbe stata contraria ai principi del suo credo religioso. La trasfusione,
invece fu praticata ugualmente poiché il medico aveva ritenuto che ci fosse un
pericolo anche per lei. Le motivazioni della sentenza, spiegano che il medico
primario “…aveva cercato di aggirare il
rifiuto della paziente chiedendo l’autorizzazione al pubblico ministero con la
motivazione che la trasfusione coatta era necessaria per salvare la paziente e
il feto (che invece era già stato dichiarato morto). La paziente in questione,
invece, non era mai stata in pericolo di vita, dicono i magistrati, ed era
sempre rimasta “cosciente, lucida e nel pieno delle sue capacità”. Per praticare la trasfusione, infatti,
“era stato necessario che due infermieri
immobilizzassero la giovane donna, che in lacrime continuava a opporsi a quel
trattamento”, come afferma una nota dei testimoni di Geova.
LA REPUBBLICA TUTELA,
L’INDIVIDUO SCEGLIE LIBERAMENTE L’articolo 32 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti.” Aggiungendo, al secondo comma, “Nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Diritto alla
salute e diritto all’autodeterminazione sono diritti soggettivi assoluti ovvero diritti che possono essere fatti
valere nei confronti di chiunque e di cui tutti coloro che non sono titolari
hanno l’obbligo di rispettarne le facoltà proprie. Il rifiuto alle cure è,
quindi, una declinazione del diritto di scegliere liberamente se sottoporsi a
un determinato trattamento sanitario. Tale diritto
viene riconosciuto anche in ambito
sovranazionale in particolare va richiamata la Convenzione del Consiglio
d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere
umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (Convenzione di
Oviedo), la quale all’art. 5, comma 1, prevede che un intervento nel campo
della salute non possa essere effettuato se non dopo che la persona interessata
abbia dato consenso libero e informato.
LO DICE ANCHE IL CODICE
DEONTOLOGICO Anche
la deontologia medica tutela il diritto a rifiutare un trattamento sanitario
poiché contiene norme che stabiliscono l’obbligo
per il medico di attenersi, nel rispetto del carattere autonomo e
indipendente proprio della sua funzione, alla
volontà liberamente espressa della persona che deve essere curata, sottolineando
per lo più le modalità in cui il personale sanitario deve agire in modo che sia
garantito il rispetto della dignità, della libertà e autonomia del paziente.
E IN ASSENZA DI CONSENSO
INFORMATO?
La recente Legge n. 219 del 2017 rafforza il valore del consenso informato,
prestato dal paziente e recepisce la necessità di bilanciare il diritto alla
salute e relativo diritto a non essere curati con
l’indisponibilità del bene vita. L’impianto normativo costituisce un giusto
compromesso che da un lato affida alla libertà di autodeterminazione un ruolo
preminente, dall’altro mantiene la garanzia costituzionale. In questo contesto
il consenso informato si identifica come consenso qualificato del paziente a un
certo esame diagnostico piuttosto che a un trattamento terapeutico o intervento
chirurgico, cui è attribuito il valore di condizione di liceità dell’attività
medico-chirurgica. Da un punto di vista prettamente giuridico, il consenso
informato integra una causa di giustificazione posto che la validità della sua
prestazione esclude rilevanza penale all’intervento del medico. In altre parole
l’informazione finalizzata all’acquisizione del consenso diventa parametro di
valutazione della liceità dell’atto medico. Se, dunque, il sanitario interviene
sul paziente in assenza di consenso
informato ovvero a fronte di un consenso invalido, determina una violazione
di precetti penali, posti a tutela dell’integrità psicofisica e della libertà
personale del soggetto.
È INDISPENSABILE quindi, che il medico o
l’équipe sanitaria, fatte salve le situazioni di emergenza o di urgenza, assicurino le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente
ove le condizioni cliniche di quest’ultimo e le circostanze consentano di
recepirla. Ogni deviazione rispetto a tale principio espone i clinici a precise
responsabilità civili e penali.
Avvocato
Patrizia Comite – Studio Comite