Nel nostro ordinamento
giuridico, il rapporto di lavoro è caratterizzato da due obbligazioni
reciproche principali: quella del datore di lavoro di corrispondere la
retribuzione e quella del lavoratore di effettuare la prestazione lavorativa.
Risulta, pertanto, evidente lo squilibrio che viene a crearsi nell’ambito del
rapporto quando il lavoratore non adempia alla propria obbligazione,
determinando così, non solo un danno economico e di immagine al datore di
lavoro, ma anche uno svilimento dell’elemento fiduciario alla base del rapporto
lavorativo. Basti pensare ai casi di dipendenti infedeli, assenteisti o
fannulloni. Ma, anche le troppe assenze effettuate dal dipendente sono state
spesso causa di controversie che hanno condotto fino al licenziamento del
dipendente, la cui prestazione risultava in tal modo non sufficiente e poco
proficua per il datore di lavoro, in quanto inadeguata sotto il profilo
produttivo e organizzativo. Ma, non tutti i casi di reiterate assenze possono
condurre automaticamente e legittimamente a un licenziamento…
QUESTIONE DI GIUSTA
CAUSA
La Corte di Cassazione ha affermato, in via di principio, che il licenziamento,
per essere qualificato lecito e non
discriminatorio, deve essere sorretto da giusta causa o da giustificato
motivo. Pertanto, nel caso specifico di reiterate assenze del lavoratore,
il conseguente licenziamento può ritenersi lecito e non discriminatorio solo
se, sulla scorta della valutazione
complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso e in base agli
elementi dimostrati dal datore di lavoro, sia provato che le assenze abbiano
configurato uno scarso rendimento lavorativo nell’ambito di una evidente
violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente e a lui
imputabile. Insomma, ai fini della legittima interruzione del rapporto
lavorativo, le assenze ripetute diventano rilevanti solo quando, anche se
incolpevoli, diano luogo a uno scarso rendimento, rendendo la prestazione non
più utile per il datore o incidano negativamente sulla produzione aziendale
creando scompensi organizzativi (Corte
di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 12592 del 17/06/2016; Corte di
Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 18678 del 04/09/2016).
UNA SINGOLARE VICENDA Il giudice del lavoro
di Brindisi con una recente sentenza ha superato i costanti insegnamenti della
Corte di Legittimità, richiedendo, oltre alla dimostrazione
dell’inutilizzabilità della prestazione lavorativa del dipendente nei giorni di
presenza, una illegittimità delle ragioni che hanno determinato le assenze
stesse. La singolare vicenda oggetto della sentenza, infatti, riguarda il caso
di un dipendente licenziato in quanto, nel periodo che andava dal 2009 al 2015,
aveva lavorato per un totale di soli 385 giorni, con una percentuale di
prestazione resa pari al 19,79%. Infatti, a detta del datore di lavoro, tali
assenze, non continuative e dovute a vario titolo (malattia, permessi
sindacali, permessi ex legge 104/1992, permessi elettorali, aspettative e via
dicendo) e comunicate peraltro poco prima dell’inizio del turno, avevano creato
notevoli problemi organizzativi ed avevano reso non proficua la prestazione del
lavoratore quando presente. Da qui, il licenziamento
per giustificato motivo oggettivo secondo la Riforma Fornero e la procedura prevista dall’art. 1, comma 40,
della Legge n. 92/2012.
UN LICENZIAMENTO
ILLEGITTIMO E INGIUSTIFICATO! A parte la mancata dimostrazione, con elementi
idonei e inequivoci, della sostanziale inutilità della prestazione lavorativa e
dell’effettivo disagio organizzativo causato, per il Tribunale del lavoro di
Brindisi ciò che è dirimente in tal senso è la piena legittimità di tutte le assenze fruite dal lavoratore.
Infatti, per il Giudice del Lavoro non può non evidenziarsi come la valutazione
dell’attività resa dal lavoratore licenziato sia stata effettuata in relazione
ad assenze ritenute dal datore di lavoro sempre legittime. In altri termini, se
è incontestata la legittimità delle ragioni che hanno determinato l'assenzea del lavoratore,
sempre puntualmente autorizzato e in difetto di contestazioni circa l’abusivo
ricorso a permessi o congedi in violazione delle norme che ne regolamentano
presupposti e limiti, la non proficuità della prestazione lavorativa non può
essere valutata in relazione alle giornate per cui la società ha accordato
quanto chiesto. Diversamente, infatti, dovrebbe ritenersi che le legittime
assenze del lavoratore, dovute all’esercizio della libertà sindacale e al
diritto/dovere di assistere una persona portatrice di handicap in situazione di
gravità, possano concorrere nel determinare una valutazione sull’utilità della
prestazione. In tal modo, però, si finirebbe per annullare negandolo,
l’esercizio di un diritto riconosciuto dallo stesso datore di lavoro e si finirebbe
per considerare quantitativamente basso un rendimento determinato dalla
legittima fruizione di istituti previsti dalla legge (Tribunale di Brindisi, sezione lavoro, sentenza del 26/10/2016).
VOGLIA DI LAVORARE… Quelle trattate fino ad
ora sono argomentazioni evidentemente valide e condivisibili da un punto di
vista strettamente giuridico che, tuttavia, applicate a una realtà lavorativa,
(neanche tanto rara ai nostri giorni), offrono indubbiamente a lavoratori poco
volenterosi, lo strumento per sottrarsi
legittimamente al lavoro, mantenendolo allo stesso tempo. Il tutto a
discapito di chi invece vuole lavorare e del datore di lavoro che, non potendo
negare permessi e congedi, si trova di fatto privo di prestazioni lavorative,
con inevitabili ripercussioni negative sulla sua attività.
Avvocato
Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando