lunedì 21 novembre 2016

LAVORO: LE ASSENZE ECCESSIVE LEGITTIMANO IL LICENZIAMENTO?


Nel nostro ordinamento giuridico, il rapporto di lavoro è caratterizzato da due obbligazioni reciproche principali: quella del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione e quella del lavoratore di effettuare la prestazione lavorativa. Risulta, pertanto, evidente lo squilibrio che viene a crearsi nell’ambito del rapporto quando il lavoratore non adempia alla propria obbligazione, determinando così, non solo un danno economico e di immagine al datore di lavoro, ma anche uno svilimento dell’elemento fiduciario alla base del rapporto lavorativo. Basti pensare ai casi di dipendenti infedeli, assenteisti o fannulloni. Ma, anche le troppe assenze effettuate dal dipendente sono state spesso causa di controversie che hanno condotto fino al licenziamento del dipendente, la cui prestazione risultava in tal modo non sufficiente e poco proficua per il datore di lavoro, in quanto inadeguata sotto il profilo produttivo e organizzativo. Ma, non tutti i casi di reiterate assenze possono condurre automaticamente e legittimamente a un licenziamento…
 
QUESTIONE DI GIUSTA CAUSA La Corte di Cassazione ha affermato, in via di principio, che il licenziamento, per essere qualificato lecito e non discriminatorio, deve essere sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. Pertanto, nel caso specifico di reiterate assenze del lavoratore, il conseguente licenziamento può ritenersi lecito e non discriminatorio solo se, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso e in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, sia provato che le assenze abbiano configurato uno scarso rendimento lavorativo nell’ambito di una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente e a lui imputabile. Insomma, ai fini della legittima interruzione del rapporto lavorativo, le assenze ripetute diventano rilevanti solo quando, anche se incolpevoli, diano luogo a uno scarso rendimento, rendendo la prestazione non più utile per il datore o incidano negativamente sulla produzione aziendale creando scompensi organizzativi (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 12592 del 17/06/2016; Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 18678 del 04/09/2016).

UNA SINGOLARE VICENDA Il giudice del lavoro di Brindisi con una recente sentenza ha superato i costanti insegnamenti della Corte di Legittimità, richiedendo, oltre alla dimostrazione dell’inutilizzabilità della prestazione lavorativa del dipendente nei giorni di presenza, una illegittimità delle ragioni che hanno determinato le assenze stesse. La singolare vicenda oggetto della sentenza, infatti, riguarda il caso di un dipendente licenziato in quanto, nel periodo che andava dal 2009 al 2015, aveva lavorato per un totale di soli 385 giorni, con una percentuale di prestazione resa pari al 19,79%. Infatti, a detta del datore di lavoro, tali assenze, non continuative e dovute a vario titolo (malattia, permessi sindacali, permessi ex legge 104/1992, permessi elettorali, aspettative e via dicendo) e comunicate peraltro poco prima dell’inizio del turno, avevano creato notevoli problemi organizzativi ed avevano reso non proficua la prestazione del lavoratore quando presente. Da qui, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo secondo la Riforma Fornero e la procedura prevista dall’art. 1, comma 40, della Legge n. 92/2012.

UN LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO E INGIUSTIFICATO! A parte la mancata dimostrazione, con elementi idonei e inequivoci, della sostanziale inutilità della prestazione lavorativa e dell’effettivo disagio organizzativo causato, per il Tribunale del lavoro di Brindisi ciò che è dirimente in tal senso è la piena legittimità di tutte le assenze fruite dal lavoratore. Infatti, per il Giudice del Lavoro non può non evidenziarsi come la valutazione dell’attività resa dal lavoratore licenziato sia stata effettuata in relazione ad assenze ritenute dal datore di lavoro sempre legittime. In altri termini, se è incontestata la legittimità delle ragioni che hanno determinato l'assenzea del lavoratore, sempre puntualmente autorizzato e in difetto di contestazioni circa l’abusivo ricorso a permessi o congedi in violazione delle norme che ne regolamentano presupposti e limiti, la non proficuità della prestazione lavorativa non può essere valutata in relazione alle giornate per cui la società ha accordato quanto chiesto. Diversamente, infatti, dovrebbe ritenersi che le legittime assenze del lavoratore, dovute all’esercizio della libertà sindacale e al diritto/dovere di assistere una persona portatrice di handicap in situazione di gravità, possano concorrere nel determinare una valutazione sull’utilità della prestazione. In tal modo, però, si finirebbe per annullare negandolo, l’esercizio di un diritto riconosciuto dallo stesso datore di lavoro e si finirebbe per considerare quantitativamente basso un rendimento determinato dalla legittima fruizione di istituti previsti dalla legge (Tribunale di Brindisi, sezione lavoro, sentenza del 26/10/2016).

VOGLIA DI LAVORARE… Quelle trattate fino ad ora sono argomentazioni evidentemente valide e condivisibili da un punto di vista strettamente giuridico che, tuttavia, applicate a una realtà lavorativa, (neanche tanto rara ai nostri giorni), offrono indubbiamente a lavoratori poco volenterosi, lo strumento per sottrarsi legittimamente al lavoro, mantenendolo allo stesso tempo. Il tutto a discapito di chi invece vuole lavorare e del datore di lavoro che, non potendo negare permessi e congedi, si trova di fatto privo di prestazioni lavorative, con inevitabili ripercussioni negative sulla sua attività.


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando