Avete mai sentito
parlare di sharing economy? È un nuovo modello economico basato sul riuso e
sulla condivisione di beni, servizi o conoscenze, con effetti positivi sia in
termini economici sia in termini di impatto sull’ambiente. Ne sono esempi molto
noti il co-working ed il car-pooling, che consistono rispettivamente nella
condivisione, tra persone appartenenti a diverse realtà lavorative e tra loro
estranee, dell’ambiente di lavoro o di automobili private, allo scopo
principale di ridurre le spese di affitto, organizzazione o trasporto. Ma, da
qualche anno si è fatto largo anche l’home restaurant, cioè l’utilizzo della
propria abitazione privata per svolgere attività di ristorazione. Nato timidamente
come un modo per far fronte alla crisi economica, si è rapidamente diffuso
tanto da richiedere una disciplina normativa, proprio in questi giorni in
discussione in Parlamento. Presto quindi potremo ritrovarci in condominio
ristoranti casalinghi, con odori, rumori ed avventori ad animare i
pianerottoli. Ma il condominio si potrebbe opporre a tutto ciò?
UN FENOMENO
RELATIVAMENTE RECENTE attualmente privo di una specifica disciplina normativa che non
è stato ancora oggetto di pronunce giurisprudenziali che ne abbiano esaminato
aspetti e dinamiche peculiari o che si siano occupate di problematiche
condominiali causate dal fenomeno, per la cui risoluzione comunque non si potrà
che fare riferimento alla disciplina generale in materia di proprietà e rapporti di buon vicinato.
Qualche spunto interessante, però, lo offre una recente sentenza della Corte di
Cassazione, che, sebbene ancora lontana dallo specifico fenomeno, si è occupata
di un caso che molto gli si avvicina e che potrebbe essere di riferimento per
quei condomìni non proprio favorevoli ad ospitare l’esercizio di questa
attività. Nella questione affrontata, infatti, si trattava di una lite
condominiale insorta a causa delle intollerabili immissioni di rumori lamentate
da un condòmino e provenienti da un appartamento confinante, adibito, dai suoi
proprietari e in asserita violazione del regolamento condominiale, a pizzeria
mediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante
locale terraneo, a sua volta adibito a ristorante pizzeria (Cassazione civile, Sezione II, Sentenza del
20 ottobre 2016, n. 21307).
SOLO UN DIVIETO DICHIARATO
espressamente
nel regolamento condominiale può impedire lo svolgimento di un’attività
commerciale in un’abitazione privata. È, questa, la conclusione a cui sono
pervenuti i giudici di legittimità con la sentenza. Se il regolamento
condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di
destinazione alle facoltà di godimento dei condòmini sulle unità immobiliari in
esclusiva proprietà (sia mediante elencazione delle attività vietate, sia con
riferimento ai pregiudizi che si intende evitare), il medesimo deve indicarli in
maniera chiara ed univoca. Pertanto,
bisogna evitare interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto attiene
all’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, ma ancor più
per quanto riguarda la corretta individuazione dei beni effettivamente
assoggettati alla limitazione circa le facoltà di destinazione, di norma
spettanti al proprietario. Al contrario, la mancanza di una previsione espressa
di un limite, altro non è che l’indice della volontà di mantenere intatte le facoltà tipiche del diritto di proprietà. Il
silenzio vale solo silenzio (Cassazione
civile, Sezione VI, Ordinanza dell’11 settembre 2014, n. 19229).
UN'ATTIVITÀ ATIPICA e non proprio
equiparabile all’attività di ristorazione vera e propria quale è quella oggetto
della sentenza ora ricordata. L’home restaurant, infatti, in quanto svolto in
casa e quindi caratterizzato dalla saltuarietà
dell’attività, non solo non vale a modificare la destinazione abitativa
dell’immobile che lo ospita, ma probabilmente risulta anche meno invasivo e
disagevole nei confronti del condominio. Lo stesso disegno di legge in discussione in Parlamento, d’altronde, ha
fissato limiti talmente stringenti al suo esercizio (per esempio, il numero di
coperti e gli incassi realizzabili nell’anno), da confinarlo ad un’attività
quasi occasionale, sebbene comunque commerciale. Il Ministero dello Sviluppo Economico, infatti, nella Risoluzione n. 50481 del 10 aprile 2015
(l’unico atto ufficiale in materia di ristoranti casalinghi), ha ritenuto che
l’attività di home restaurant (o di cuoco a domicilio), sebbene esercitata solo
in alcuni giorni dedicati e fruita da un numero limitato di soggetti, non può
che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e
bevande. Infatti, anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali
privati coincidenti con il domicilio del cuoco, si tratta pur sempre di locali
attrezzati aperti alla clientela, che versa il corrispettivo di un prezzo,
configurando pertanto l’attività quale attività economica in senso proprio.
PER CONCLUDERE sebbene occasionale e
di scarso rilievo, l’attività di home restaurant ben potrebbe essere ostacolata
e di fatto impedita da una espressa norma del regolamento condominiale, che
vieta l’esercizio al suo interno di ogni attività economica e ogni utilizzo
degli immobili privati che non sia esclusivamente o strettamente abitativo.
Avvocato
Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando