In queste ultime
settimane, il tema della disabilità è stato spesso al centro della cronaca, che
se ne è occupata sia in termini positivi, per raccontarci i successi dei nostri
atleti alle Paralimpiadi, sia purtroppo in termini negativi, per raccontarci i
tanti episodi di discriminazione ed emarginazione legati ad essa, tanto da
indurre anche il Governo ad avviare in questi giorni una campagna di
sensibilizzazione per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema
dei diritti delle persone con disabilità. Anche la Corte di Cassazione si è
occupata dell’argomento, sebbene solo indirettamente, emettendo diverse sentenze
nelle quali ha riconosciuto e ribadito la piena legittimità del licenziamento
del lavoratore per aver abusato dei permessi retribuiti previsti dall’art. 33
della Legge n. 104/1992, quali misure a tutela dei disabili. Che si intende per
abuso e quando si configura?
I PERMESSI RETRIBUITI oltre che al lavoratore
dipendente disabile in situazione di gravità ed al lavoratore dipendente
genitore, anche adottivo o affidatario, di figli disabili in situazione di
gravità, sono riconosciuti, dal
comma 3 dell’art. 33 della Legge 104, anche
al lavoratore dipendente, pubblico o
privato, che assiste una persona con grave handicap. A
quest’ultimo, infatti, è riconosciuto il diritto a fruire di tre giorni, anche
continuativi, di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione
figurativa, a condizione però che la persona assistita non sia ricoverata a
tempo pieno e che il lavoratore che presta assistenza ne sia il coniuge, un
parente o un affine entro il 2° grado, ovvero entro il 3° grado se i genitori o
il coniuge della persona assistita abbiano compiuto i sessantacinque anni di
età oppure sono anche essi affetti da patologie invalidanti o sono deceduti o
mancanti. È proprio a quest’ultima categoria di lavoratori che si riferiscono
le recenti sentenze della Corte di Cassazione: lavoratori che, in evidente
spregio delle finalità di tale agevolazione lavorativa, utilizzavano le ore di permesso non tanto o non solo
per prestare assistenza ai propri cari disabili, quanto piuttosto per attendere ai propri affari, i più
disparati.
LA RAGIONE DEL BENEFICIO infatti è l’assistenza
alla persona disabile. L’attività di assistenza, quindi, deve essere prestata
in coincidenza temporale con la
fruizione dei permessi accordati dal datore di lavoro e per la loro intera
durata. Su questo, secondo i giudici di legittimità, la norma parla chiaro e,
in mancanza di specificazioni ulteriori da parte del legislatore, non ammette
alcuna diversa interpretazione. L’assenza dal lavoro per la fruizione del
permesso, infatti, deve porsi in relazione
diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è
riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile (quindi, permesso = assistenza). La Corte di Cassazione, quindi, respinge
nettamente le argomentazioni difensive dei lavoratori licenziati, per i quali
la ratio della norma è da ravvisare in una funzione
non direttamente strumentale, ma solo
compensativa delle cure ed incombenze prestate in momenti temporali diversi
dalla fruizione dei permessi. Infatti, nessun elemento testuale o logico
consente di avallare una simile visione dell’istituto che, tantomeno, può
essere utilizzato per esigenze diverse da quella dell’assistenza al disabile,
in quanto il beneficio comporta un sacrificio
organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di
esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come
meritevoli di superiore tutela. Laddove, pertanto, il nesso causale tra assenza
dal lavoro ed assistenza al disabile manchi (del tutto o anche solo in parte),
non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque
si è in presenza di un uso improprio
e, quindi, di un abuso del diritto,
che ha assunto crescente rilievo anche nella giurisprudenza europea,
riconosciuto all’art. 54 della Carta dei diritti dell’unione europea (Corte di Cassazione, sezione lavoro,
sentenza del 13/09/2016, n. 17968).
UN ABUSO ANCOR PIÙ
AGGRAVATO
dalla conseguente indebita percezione
dell’indennità e dallo sviamento dell’intervento assistenziale, che tale
comportamento integra nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del
trattamento economico. Ma, anche il rapporto con il datore di lavoro ne esce
mortificato: utilizzato per finalità differenti, il permesso fruito determina
una assenza ingiustificata dal lavoro,
intaccando il vincolo fiduciario
alla base del rapporto lavorativo e ledendo la buona fede del datore di lavoro,
privato ingiustamente della prestazione
lavorativa in violazione
dell’affidamento riposto nel dipendente. In tal modo, il lavoratore compie
una grave e palese violazione dei
doveri di correttezza e diligenza, nonché dei primari ed elementari doveri
imposti dalla convivenza sociale, venendo quindi legittimamente colpito con la
sanzione del licenziamento. Non a caso, infatti, l’abuso dei permessi 104 e
l’assenza ingiustificata dal lavoro che ne deriva sono oggi considerati indice
di quella infedeltà lavorativa di cui, anche a seguito di eclatanti episodi
assurti agli onori della cronaca, tanto si parla, inducendo a ritenere
legittimo, quale strumento di contrasto, l’utilizzo di investigatori privati e
di controlli a distanza sui lavoratori (Corte
di Cassazione, sezione lavoro, sentenza del 12/05/2016, n. 9749; Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza
del 06/05/2016, n. 9217).
IN CONCLUSIONE l’utilizzo di tali permessi
per finalità (in tutto o in parte) diverse da quella propria attribuita dal
legislatore, integra una condotta
condannabile sotto diversi profili. Di ciò i giudici della Suprema Corte
sono sempre più consapevoli e con le loro pronunce, tutte dello stesso tenore,
hanno inteso stringere le maglie dell’istituto previsto dalla legge n.
104/1992.
Avvocato
Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente Parlando