lunedì 20 giugno 2016

LAVORO: QUANDO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE RUBA AL DATORE È ILLEGITTIMO



In un’epoca, come la nostra, in cui studi e statistiche ci confermano che purtroppo la disoccupazione rappresenta ancora una realtà molto attuale che riguarda indiscriminatamente ogni categoria ed ogni settore professionale, è naturale che i frequenti fatti di cronaca che ci raccontano di assenteismi e infedeltà lavorative ci tocchino profondamente. La prima reazione che tali avvenimenti ci suscitano, infatti, è quella di sperare che tali lavoratori subiscano la sanzione massima, cioè la perdita del posto di lavoro, che evidentemente non meritano, senza se e senza ma. Ecco perché ha fatto notizia nelle cronache giornalistiche di questi giorni una sentenza della Corte di Cassazione con cui si è disposta la reintegrazione di un lavoratore licenziato per aver sottratto merce sul posto di lavoro. Cerchiamo allora di capire meglio …

LA VICENDA portata all’esame dei giudici di legittimità riguarda un dipendente, capo reparto, di una nota catena di distribuzione francese, che era stato licenziato per essersi messo nella tasca della giacca, senza mostrarle al momento del pagamento alla cassa, alcune rondelline metalliche del valore complessivo di appena € 2,90. Già in primo e in secondo grado, i giudici avevano dichiarato illegittimo il licenziamento e disposto la reintegrazione del lavoratore, sull’assunto che, non essendo emersa dall’istruttoria espletata la prova della condotta dolosa del lavoratore e non essendovi pregressi precedenti disciplinari a suo carico, la sanzione espulsiva fosse sproporzionata anche in considerazione dello scarso valore economico della merce sottratta. Condividendo pienamente tali argomentazioni e valutazioni, la Corte di Cassazione ha quindi respinto il ricorso della catena commerciale, che insisteva nella sua posizione, confermando la sproporzionalità e dunque l’illegittimità del licenziamento (Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 7 aprile 2016, n. 6764).

NULLA DI NUOVO! A dire la verità, con questa sentenza la Cassazione non ha fatto altro che confermare sue precedenti decisioni con cui per casi analoghi e, guarda caso, sempre relativi alla stessa catena di supermercati, era giunta alle medesime conclusioni. Ciò che, infatti, la Corte di Cassazione ritiene rilevante, ai fini della valutazione della legittimità o meno del licenziamento, non è tanto o solo l’atto in sé della sottrazione di un bene sul posto di lavoro, ma il complessivo vissuto lavorativo del dipendente sanzionato e le circostanze specifiche in cui l’episodio è avvenuto. Per determinare, infatti, la rottura del vincolo fiduciario sottostante il rapporto lavorativo e legittimare la sanzione massima di carattere espulsivo, è necessario che l’episodio addebitato abbia carattere di particolare gravità, che non sembra ricorrere quando i beni sottratti hanno un valore trascurabile e nemmeno quando il lavoratore tiene un comportamento palesemente colpevole, nascondendo o negando di aver sottratto il bene, anche di fronte all’evidenza. Secondo i giudici di legittimità, infatti, tali comportamenti sarebbero spiegabili (e quindi giustificabili) in relazione alla comprensibile preoccupazione del dipendente sulle conseguenze di un suo gesto probabilmente commesso senza alcuna premeditazione o in presenza di particolari e contingenti stati emotivi e psicologici. Da valutare è, poi, anche il curriculum lavorativo del dipendente: se l’episodio non ha avuto precedenti, il valore del bene è modesto e l’anzianità di servizio è significativa e senza macchie, la sanzione disciplinare espulsiva appare obiettivamente sproporzionata, potendo idoneamente sanzionarsi il fatto con una misura diversa (Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 02/12/2015, n. 24530; Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 20/01/2015, n. 854).

LE CONCLUSIONI della Corte di Cassazione sono certamente condivisibili nella misura in cui mirano a tutelare il lavoratore da misure eccessive e sproporzionate che il datore di lavoro potrebbe attuare nei suoi confronti magari anche con doppi fini, inducendolo invece a valutazioni più attente e circostanziate del fatto commesso dal lavoratore, comminandogli la sanzione più adeguata alla gravità del fatto, pur riprovevole in ogni caso. Ma, mi vengono spontanee alcune domande: quale è il valore che il bene sottratto deve avere per potersi ritenere grave e significativo il danno derivante al datore di lavoro? A tal fine può essere rilevante la dimensione dell'azienda (rubare ad un grande supermercato può essere meno grave che rubare ad un piccolo commerciante)? Quale rilevanza deve essere data alla nota consuetudine (diffusa soprattutto negli uffici) di portarsi a casa materiali di consumo, come penne o fogli, di valore insignificante ma con abituale ripetizione?


Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando