In un’epoca, come la
nostra, in cui studi e statistiche ci confermano che purtroppo la
disoccupazione rappresenta ancora una realtà molto attuale che riguarda indiscriminatamente
ogni categoria ed ogni settore professionale, è naturale che i frequenti fatti
di cronaca che ci raccontano di assenteismi e infedeltà lavorative ci tocchino
profondamente. La prima reazione che tali avvenimenti ci suscitano, infatti, è
quella di sperare che tali lavoratori subiscano la sanzione massima, cioè la
perdita del posto di lavoro, che evidentemente non meritano, senza se e senza
ma. Ecco perché ha fatto notizia nelle cronache giornalistiche di questi giorni
una sentenza della Corte di Cassazione con cui si è disposta la reintegrazione
di un lavoratore licenziato per aver sottratto merce sul posto di lavoro.
Cerchiamo allora di capire meglio …
LA VICENDA portata all’esame dei
giudici di legittimità riguarda un dipendente, capo reparto, di una nota catena
di distribuzione francese, che era stato licenziato per essersi messo nella
tasca della giacca, senza mostrarle al momento del pagamento alla cassa, alcune
rondelline metalliche del valore complessivo di appena € 2,90. Già in primo e
in secondo grado, i giudici avevano dichiarato illegittimo il licenziamento e
disposto la reintegrazione del lavoratore, sull’assunto che, non essendo emersa
dall’istruttoria espletata la prova della condotta dolosa del lavoratore e non
essendovi pregressi precedenti disciplinari a suo carico, la sanzione espulsiva fosse sproporzionata anche in considerazione
dello scarso valore economico della merce sottratta. Condividendo
pienamente tali argomentazioni e valutazioni, la Corte di Cassazione ha quindi
respinto il ricorso della catena commerciale, che insisteva nella sua
posizione, confermando la sproporzionalità e dunque l’illegittimità del licenziamento
(Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza
del 7 aprile 2016, n. 6764).
NULLA DI NUOVO! A dire la verità, con
questa sentenza la Cassazione non ha fatto altro che confermare sue precedenti
decisioni con cui per casi analoghi e, guarda caso, sempre relativi alla stessa
catena di supermercati, era giunta alle medesime conclusioni. Ciò che, infatti,
la Corte di Cassazione ritiene rilevante, ai fini della valutazione della
legittimità o meno del licenziamento, non è tanto o solo l’atto in sé della
sottrazione di un bene sul posto di lavoro, ma il complessivo vissuto lavorativo del dipendente sanzionato e le
circostanze specifiche in cui l’episodio è avvenuto. Per determinare,
infatti, la rottura del vincolo fiduciario sottostante il rapporto lavorativo e
legittimare la sanzione massima di carattere espulsivo, è necessario che
l’episodio addebitato abbia carattere di
particolare gravità, che non sembra ricorrere quando i beni sottratti hanno
un valore trascurabile e nemmeno quando il lavoratore tiene un comportamento
palesemente colpevole, nascondendo o negando di aver sottratto il bene, anche
di fronte all’evidenza. Secondo i giudici di legittimità, infatti, tali
comportamenti sarebbero spiegabili (e quindi giustificabili) in relazione alla
comprensibile preoccupazione del dipendente sulle conseguenze di un suo gesto
probabilmente commesso senza alcuna premeditazione o in presenza di particolari
e contingenti stati emotivi e psicologici. Da valutare è, poi, anche il
curriculum lavorativo del dipendente: se l’episodio non ha avuto precedenti, il
valore del bene è modesto e l’anzianità di servizio è significativa e senza
macchie, la sanzione disciplinare espulsiva appare obiettivamente
sproporzionata, potendo idoneamente sanzionarsi il fatto con una misura diversa
(Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza
del 02/12/2015, n. 24530; Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del
20/01/2015, n. 854).
LE CONCLUSIONI della Corte di
Cassazione sono certamente condivisibili nella misura in cui mirano a tutelare
il lavoratore da misure eccessive e sproporzionate che il datore di lavoro
potrebbe attuare nei suoi confronti magari anche con doppi fini, inducendolo
invece a valutazioni più attente e circostanziate del fatto commesso dal
lavoratore, comminandogli la sanzione più adeguata alla gravità del fatto, pur
riprovevole in ogni caso. Ma, mi vengono spontanee alcune domande: quale è il
valore che il bene sottratto deve avere per potersi ritenere grave e
significativo il danno derivante al datore di lavoro? A tal fine può essere
rilevante la dimensione dell'azienda (rubare ad un grande supermercato
può essere meno grave che rubare ad un piccolo commerciante)? Quale rilevanza
deve essere data alla nota consuetudine (diffusa soprattutto negli uffici) di
portarsi a casa materiali di consumo, come penne o fogli, di valore insignificante
ma con abituale ripetizione?
Avvocato
Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando