venerdì 12 dicembre 2014

I LOVE SHOPPING: SE COMPULSIVO RISCHI LA SEPARAZIONE CON ADDEBITO


Il nostro blog si occupa spesso di tematiche delicate e impegnative prendendo spunto, il più delle volte, da quanto richiesto dai nostri lettori. Tuttavia, considerato il periodo storico particolarmente difficile, appena stemperato dal clima natalizio, ho pensato di alleggerire la lettura dedicando qualche riflessione giuridica su un argomento che mi ha fatto sorridere. L’occasione mi viene offerta da una pronuncia della Corte di Cassazione dello scorso anno, che mi è capitato di leggere per puro caso sul web e che ho approfondito soprattutto in ragione del fatto che io stessa potrei ritrovarmi, per inclinazione e per natura, in una situazione simile a quella dalla quale ha tratto origine la pronuncia in questione. Devo confessare, infatti, di essere molto sensibile al fascino dello shopping, tanto che quando ho letto la pronuncia della Suprema Corte non ho potuto esimermi dal riflettere sulla sottile linea che, ahimè, separa il vizio controllato dall’ossessione. Ma vediamo meglio nel dettaglio…


SHOPPING COMPULSIVO? MOTIVO DI ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE Nella sentenza, infatti, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che, laddove uno dei coniugi sia affetto da shopping compulsivo, l’altro ha facoltà di domandare la separazione con addebito proprio in virtù di tale patologia. Con questa pronuncia, infatti, la Corte ha confermato la sentenza di addebito della separazione emessa in sede di appello, la quale si fondava sulle risultanze emerse in sede di Consulenza tecnica disposta dal Tribunale sulla persona della moglie, nella quale si accertava, in capo alla medesima, la sussistenza della patologia, consistente nell’uso impulsivo del denaro guidato dall’ossessione all’acquisto fine a se stesso. Nel caso di specie, inoltre, si accertava altresì che la donna era perfettamente conscia del proprio disturbo, ragion per la quale la stessa perizia medica escludeva l’incapacità di intendere e volere, sussistendo solo un impulso compulsivo allo shopping tale da ritenersi un disturbo della personalità (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 18 novembre 2013, n. 25843). 

SPERPERARE IL DENARO DI FAMIGLIA È CONTRO LA LEGGE Nel caso affrontato dai giudici, infatti, la moglie non solo sperperava il denaro di famiglia, ma addirittura rubava i soldi sia a parenti sia a terze persone, così da poter acquistare beni sempre più frequentemente e sempre più costosi, appagando i propri impulsi a discapito della propria famiglia. Da ciò deriva la violazione dell’articolo 143 del codice civile, rubricato Diritti e doveri reciproci dei coniugi, che così dispone: “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”. Dalla lettura di questo articolo, dunque, emerge non solo che il contributo del coniuge è da intendersi in senso ampio, comprensivo tanto dei redditi guadagnati, quanto del patrimonio costituito, conservato e via via accumulato, ma anche che la contribuzione è sempre nell’interesse collettivo della famiglia, soprattutto laddove vi siano figli a carico.

COSA SIGNIFICA ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE? Per chiarezza, è sicuramente utile chiarire e ricordare cosa si intenda per addebito della separazione, così che anche i nostri lettori non giuristi possano meglio comprendere la portata della sentenza in commento. Nei casi di separazione giudiziale (procedimento contenzioso davanti al Tribunale, che può essere instaurato da uno dei coniugi qualora non si raggiunga un accordo), infatti, in cui l’intollerabilità della convivenza tra i due coniugi sia determinata da comportamenti posti in essere da uno dei due tali per cui si violino i doveri del matrimonio (secondo le previsioni dell’art.143 del codice civile), un coniuge può richiedere al giudice di addebitare all’altro la separazione in ragione di detti comportamenti. L’addebito della separazione, dunque, altro non è se non una sorta di sanzione contro la violazione dei doveri familiari e coniugali da parte del marito o della moglie, prevista all’art. 151, II comma del codice civile, nel quale è stabilito che “il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.

QUANDO? Laddove il Giudice, su espressa richiesta di uno dei coniugi, nel valutare l’addebito riscontri un nesso di causalità tra il comportamento tenuto dal coniuge e l’intollerabilità da parte dell’altro a continuare la convivenza, a tal fine analizzando e valutando in modo molto attento il contesto familiare. Sul punto, la giurisprudenza è ormai pressoché uniforme nel ritenere che “la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola inosservanza dei doveri coniugali, implicando, invece, tale pronuncia la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario a tali doveri da parte di uno o di entrambi i coniugi, e cioè che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza” (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 14 ottobre 2010, n. 21245; Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 28 maggio 2008, n. 14042). In altre parole, in questi casi il Giudice deve verificare la violazione dei diritti coniugali da parte di uno dei due coniugi (moglie o marito), l’intollerabilità della convivenza da parte dell’altro coniuge (quello che ha richiesto l’addebito) ed il legame di causalità tra le due circostanze. Le conseguenze dell’addebito, ovviamente, variano a seconda della posizione assunta dai coniugi, nel senso che il coniuge a cui viene addebitata la separazione medesima perde ogni diritto al mantenimento e gli vengono attenuati i diritti successori (in tema di eredità, ad esempio, il coniuge cui è stata addebitata la separazione ha diritto solo a un assegno vitalizio solo ed esclusivamente se, all’atto dell’apertura del testamento, godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto), mentre il coniuge a cui non è stata addebitata la separazione, invece, non solo ha diritto al mantenimento qualora vi siano le condizioni per ottenerlo, ma altresì conserva gli stessi diritti di successione del coniuge non separato.



CONCLUDENDO... nonostante possa far sorridere la circostanza a rigore della quale si addebiti una separazione a causa dell’eccessivo shopping, non va trascurato il fatto grave che da tale eccesso sono insorti problemi economici in una famiglia. Tale circostanza è motivo più che sufficiente, a mio giudizio, per “punire” civilmente detto comportamento, peraltro consapevole, attraverso la pronuncia di addebito della separazione alla moglie, a fronte dell’evidente violazione non solo dell’art. 143 del codice civile, ma soprattutto della fiducia violata dell’altro coniuge. È evidente, infatti, che in tali situazioni sia oltremodo doveroso tutelare il coniuge più debole, andando ad incidere su aspetti quali, ad esempio, l’assegno di mantenimento, l’affidamento dei figli, l’assegnazione della casa coniugale ed i diritti ereditari, in modo da ristabilire un certo equilibrio all’interno di una famiglia in fase di disgregazione, privilegiando gli interessi della prole.

Dottoressa Roberta Bonazzoli - Studio Comite