Soprattutto negli ultimi anni, si registra una vera e propria esplosione del fenomeno della violenza sulle donne, quasi come se si fosse radicata una perversa moda nell’odierna società a rigor della quale un uomo (sempre se di uomo possiamo parlare..) pare si senta autorizzato non solo a perpetrare violenze fisiche nei confronti della propria compagna, piuttosto che madre, sorella o figlia, ma anche psicologiche, atte a creare un clima di paura e sudditanza nelle proprie vittime, sfocianti in un circolo vizioso di sofferenza ed alienazione infinito. Ovviamente essendo donna questa tematica non può non starmi particolarmente a cuore, soprattutto in ragione del fatto che le vittime di questi abusi, nella maggior parte dei casi, non solo si autoconvincono di meritarsi simili inqualificabili trattamenti, ma addirittura si annullano come persone giustificando i propri aguzzini, dimenticandosi che un uomo che alza le mani su una donna altro non è che una bestia, se non peggio. A tal proposito, infatti, una sconcertante recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, mi da lo spunto per approfondire questo delicato argomento, soprattutto dal momento che non ne condivido in alcun modo né il contenuto né la ragione ispiratrice. La sentenza in parola, a mio modesto avviso, rappresenta senza dubbio una sconfitta, in quanto annulla l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di un soggetto indagato per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 del codice penale) per mero formalismo.
MISURE CAUTELARI: LIBERTÀ INDIVIDUALE VS ESIGENZE DI INDAGINE Prima di analizzare la portata della pronuncia oggetto del presente contributo, è sicuramente utile chiarire ai non solo cosa si intende per misure cautelari, ma anche in cosa consiste il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.). Innanzitutto, le misure cautelari, disciplinate nel libro IV del Codice di Procedura Penale, sono misure di vario tipo e genere adottate dall’autorità giudiziaria, sia nel corso delle indagini preliminari sia nella fase processuale, che hanno effetti limitativi della libertà personale (misure cautelari personali) o della disponibilità di beni (misure cautelari reali) al fine di evitare che il tempo, più o meno lungo, necessario alla conclusione del processo comprometta l'esplicazione dell’attività giudiziaria penale, pregiudicandone lo svolgimento e il risultato. Quelle che interessano ai fini del presente contributo sono le misure cautelari personali, che a loro volta si distinguono in misure cautelari coercitive e misure cautelari interdittive, e che consistono nella limitazione della libertà personale. Ovviamente sono disposte da un giudice, sia nella fase delle indagini preliminari sia nella fase processuale, e presupposti per la loro applicazione sono:
1) sussistenza di gravi indizi di colpevolezza
2) esigenze cautelari (rischio di inquinamento delle prove; rischio di fuga dell’imputato; rischio di reiterazione del reato)
MALTRATTAMENTI CONTRO FAMILIARI E CONVIVENTI Tale reato (art. 572 del codice penale), collocato all’interno dell’XI titolo del II libro del codice penale, titolo dedicato ai delitti contro la famiglia ed, in particolare, nel capo IV, intitolato Dei delitti contro l’assistenza familiare, così dispone: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente (art. 571 - abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave (c.p. 583), si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”.
PER LA CASSAZIONE LA SCELTA DELLA MISURA CAUTELARE VA MOTIVATA Come anticipato, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale che disponeva la custodia cautelare in carcere per un uomo accusato di aver maltrattato moglie e figlio minore, nonostante non solo vi fossero gravi indizi di colpevolezza, ma anche il rilievo di un particolare stato di soggezione della moglie che rendeva inopportuno un ritorno a casa del marito, poiché la misura carceraria applicata non risultava sufficientemente motivata, in quanto il Giudice di merito avrebbe dovuto motivare circa l'impossibilità di conseguire il medesimo risultato cautelare con altre misure meno invasive di quella intramuraria, specie tenuto conto della possibilità di utilizzare un ampio ventaglio di misure personali (ad es. quelle previste dagli artt. 282 bis e ter del codice di procedura penale, ossia l’allontanamento dalla casa familiare ed il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa). La Corte ha affermato, a tal proposito, che “Non coerentemente motivato […] risulta il profilo dell’adeguatezza della misura cautelare prescelta, ove si consideri che i principii generali di proporzionalità e adeguatezza delle misure coercitive - siano esse di natura personale o reale - devono costituire oggetto di una valutazione preventiva e non eludibile sia da parte del giudice che le disponga, sia di quello investito dell’istanza di riesame, che di conseguenza è tenuto a motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato con le meno invasive, e più appropriate, misure coercitive previste nelle disposizioni di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, c.p.p., avuto riguardo, in particolare, alle deduzioni difensive in ordine all’elemento di novità concernente l'occupazione lavorativa che l’indagato avrebbe di recente ottenuto”, dal momento che “si tratta, invero, di tipologie di misure che devono essere modellate in relazione alle peculiarità della condotta illecita considerata, e che si caratterizzano per il fatto di affidare al giudice della cautela il compito, oltre che di verificare i presupposti applicativi ordinari, di riempire la misura di quelle specifiche prescrizioni ritenute essenziali per raggiungere l’obiettivo cautelare, ovvero per limitare le conseguenze della misura stessa”. In questa sentenza, dunque, la Suprema Corte non prende in esame né la sussistenza del grave panorama indiziario, confermato, peraltro, dallo stato di soggezione e paura della moglie, né tantomeno la sussistenza delle esigenze cautelari per l’adozione della misura applicata, ravvisate nell’esigenza di evitare il rischio di reiterazione delle violenze, ma si limita semplicemente a rivalutare l’adeguatezza della misura prescelta, ossia la custodia in carcere, perché il provvedimento di applicazione della stessa non motiva in modo sufficiente tale profilo (Cassazione penale, Sezione VI, Sentenza del 28 agosto 2014, n. 36392).
FATTA LA LEGGE, SVUOTATE LE CARCERI È pacifico che, riguardo ai criteri di scelta delle misure cautelari, il giudice debba tenere conto dell’idoneità di ciascuna di esse in relazione alle diverse esigenze cautelari da soddisfare, ispirandosi non solo al principio di adeguatezza, secondo il quale la misura della custodia cautelare in carcere deve essere utilizzata solo come estrema ratio, cioè solo se le altre risultino inadeguate, motivando la ragione per la quale si ritengano inadeguate misure cautelari meno afflittive, ma anche al principio di proporzionalità, secondo il quale la misura utilizzata deve essere proporzionata al fatto e alla sanzione che sia o che si ritiene essere irrogata. Ciò che è degno di nota, tuttavia, è il fatto che la sentenza oggetto del presente contributo, emessa in data 28 agosto 2014, si allinea, ahimè, perfettamente alle ultime novità legislative, avvenute ad inizio agosto con la conversione nella Legge 117/2014 del Decreto Legge 92/2014, le quali prevedono il ricorso alle misure cautelari detentive solo come estrema ratio, dunque una strada alternativa ai vari svuota - carceri, indulti e simili.
SIAMO ALLE SOLITE Ma è mai possibile che tutelare una donna ed il proprio figlio da un individuo violento non rientri nella cosiddetta estrema ratio? Perché viene dato maggior rilievo ad una carenza di motivazione rispetto ad uno stato di soggezione? Siamo alle solite, ci nascondiamo dietro ad un finto garantismo che, fondamentalmente, non garantisce mai chi ha subito abusi, perché il problema è un altro. Il vero problema è il sovraffollamento delle carceri, per non parlare del fatto che ormai è risaputo in ogni dove che l’Italia è il paese dei balocchi, dal momento che siamo talmente pieni di detenuti, italiani e non, che l’unico modo per tentare una gestione del fenomeno è sbandierare la carta della tutela dei diritti, ottimo specchietto per le allodole, evitando che nuovi potenziali detenuti aggravino un sistema già sull’orlo del collasso. Ritengo, inoltre, che sia umanamente vergognoso che vi siano società "civili" talmente "evolute" da non saper più dove rinchiudere i trasgressori, segno evidente che il disagio attuale ha radici profonde. Chi decide della sorte altrui dovrebbe avere un po’ più di rispetto, dovrebbe capire che ci sono priorità indiscutibili, come ad esempio la vita, già fortemente compromessa, di chi è stato in balia della violenza, soprattutto se questa è stata perpetrata da un familiare, dal momento che la famiglia dovrebbe essere un posto sicuro in cui rifugiarsi e non un orrore dal quale scappare.
È UN’ASSURDITÀ rimettere in libertà un soggetto per un cavillo, soprattutto se non si disconosce la potenziale pericolosità dello stesso. Forse le migliaia di morti che si sono succedute fino ad ora non sono bastate, cos’altro serve per convincere il Legislatore ad intervenire in modo risolutivo? Certo, è molto più semplice aggirare un problema anziché risolverlo; oggi raccoglie maggiori consensi una politica mirata a occuparsi del trattamento disumano e degradante degli istituti di carcerazione, tanto cara all’Unione Europea, piuttosto che preoccuparsi dei più deboli, tanto sono già temprati, disillusi e rassegnati... in ginocchio!!!
Dottoressa Roberta Bonazzoli – Studio Comite