lunedì 28 luglio 2014

LA PATERNITÀ È PRESUNTA, SENZA LA PROVA DEL DNA


Cambiamo decisamente argomento occupandoci, questa volta, dell’azione giudiziale volta ad ottenere la dichiarazione di paternità e maternità naturale, soffermandoci, in particolare, sul relativo procedimento e sugli strumenti probatori attraverso i quali ne può essere data dimostrazione dinanzi al Giudice. L’occasione per affrontare questo tema mi viene fornita, ancora una volta, dal quesito che recentemente ci ha sottoposto una delle nostre lettrici. La signora Anna ci ha domandato, infatti, se il rifiuto di un padre di sottoporsi al test del DNA, espresso durante un giudizio finalizzato ad ottenere appunto l’accertamento e la dichiarazione di paternità, fosse legittimo e se questo potesse pregiudicare la possibilità del riconoscimento giudiziale. La questione è indubbiamente interessante e mi riporta alla mente una decisione emessa qualche mese fa dal Tribunale di Roma. Cerchiamo, però, di capire innanzitutto cosa s’intenda per dichiarazione giudiziale di paternità (e anche di maternità) …


FIGLIO NATURALE RICONOSCIUTO La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità è specificamente disciplinata dagli artt. 269 e seguenti del codice civile. Funzione di questo istituto giuridico è di garantire al figlio naturale, non riconosciuto, il diritto ad ottenere, comunque, lo status di figlio naturale “riconosciuto”, nonostante l’assenza, nel nostro ordinamento, di un obbligo giuridico di riconoscimento in capo ai genitori. A tal fine le norme citate attribuiscono al figlio naturale non riconosciuto il potere di agire nei confronti del presunto genitore, allo scopo di ottenere un provvedimento giudiziale che produca gli stessi effetti del riconoscimento; in altre parole, una sentenza che accerti il rapporto biologico di filiazione e, di conseguenza, dia al figlio lo status di figlio naturale riconosciuto.

CHI PUÒ FAR VALERE QUESTO DIRITTO? L’azione ha carattere personale, pertanto legittimato attivamente è solo il figlio e, alla sua morte, i discendenti, nel termine di decadenza di due anni. Se, invece, il figlio muore dopo avere intrapreso il giudizio, l’azione può essere proseguita dai discendenti. Nel caso di incapacità del legittimato (vale a dire quando il figlio cui spetta il diritto alla dichiarazione di paternità o maternità è un disabile oppure minorenne) l’azione può essere esperita nel suo interesse tramite il genitore che esercita la potestà, ovvero attraverso il tutore. In quest’ultimo caso, il tutore deve ottenere l’autorizzazione da parte del Tribunale, in persona del giudice tutelare, che può anche nominare, a tale scopo, un curatore speciale il quale, ove nominato, si occupa di tutelare l’incapace anche laddove sorgano conflitti di interesse con chi ha iniziato l’azione in sua vece. L’elenco dei soggetti che possono rivolgersi al giudice per ottenere il riconoscimento giudiziale (ovvero i legittimati attivi) è, dunque, tassativo (così ha confermato la Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 2 marzo 1993, n. 2576). Nel caso di azione proposta dal genitore esercente la potestà genitoriale (oggi responsabilità genitoriale) nell’interesse del figlio con età superiore ai sedici anni, è altresì necessario che vi sia il consenso di quest’ultimo, che può validamente sopraggiungere dopo l’instaurazione del giudizio, quale elemento che va ad integrare la capacità processuale del soggetto che ha esercitato appunto l’azione. Poste le suddette nozioni basilari, procediamo ora con l’analisi delle modalità mediante le quali può essere fornita la prova della paternità e della maternità naturale.

LA PROVA DELLA PATERNITÀ E DELLA MATERNITÀ NATURALE È chiaro che incombe sull’attore, ovvero sulla persona che esercita l’azione, provare il rapporto di filiazione. Oggetto dell’accertamento è il dato biologico della procreazione, mentre non assume rilievo alcuno la sussistenza di una consapevole volontà di procreare (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 19 novembre 1992, n. 12350). L’art. 269 del codice civile al secondo comma prevede poi che la prova della paternità e della maternità naturale possa essere data con ogni mezzo. È ammesso quindi, ogni mezzo di prova, ma sono insufficienti sia la sola dichiarazione con cui la madre (o il padre) indichi il presunto padre (o la presunta madre), sia la dichiarazione del genitore che ha già riconosciuto il figlio di avere avuto rapporti sessuali con l’altro genitore all’epoca del concepimento. Ovviamente, la prova per eccellenza, visto l’attuale progresso scientifico e tecnologico, è rappresentata da quella ematologica o dall’esame del DNA, ovvero l’esame del nostro codice genetico. È chiaro d’altro canto che le indagini ematologiche e genetiche possono fornire elementi decisivi di valutazione sia nel senso di escludere sia nel senso di affermare il rapporto biologico di paternità o maternità e, dunque, è corretta la valutazione che il giudice compia sull’accertamento della paternità, facendola su tali risultanze, tanto più se l’esito di tali test viene suffragato dalla prova specifica, data nel corso del giudizio, dell’esistenza di una relazione tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento (Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 14 luglio 2011, n. 15568). Orbene, cosa accade se il convenuto (il presunto padre o la presunta madre chiamati in giudizio) si rifiuta di sottoporsi al controllo biologico disposto dal giudice?

IL TEST NON È COERCIBILE Il Tribunale di Roma, ha affrontato il seguente caso: madre e figlio convenivano in giudizio il presunto padre, chiedendo, tra le altre cose, che ne venisse accertata e dichiarata la paternità naturale; si costituiva in giudizio il convenuto, vale a dire il presunto padre, negando la paternità. Il Giudice, disponeva C.T.U. sulle persone dell’attore (figlio) e del convenuto (presunto padre), ma quest’ultimo, si rifiutava di sottoporsi al prelievo biologico adducendo la volontà di non turbare la stabilità e la serenità della propria attuale famiglia. Il Tribunale, non sussistendo un vincolo alla sottoposizione ai test, alla luce del comportamento del convenuto, dichiarava, tuttavia, la paternità naturale, autorizzando il figlio a mantenere il cognome della madre, senza menzione del cognome paterno. 

IL RIFIUTO FA PRESUMERE LA PATERNITÀ In particolare precisava il Tribunale capitolino che, ferma l’inviolabilità della persona e la non coercibilità del prelievo medesimo, nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi a indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile, da parte del giudice, ai sensi dell’art. 116 del codice di procedura civile, secondo comma, anche in assenza di prova della sussistenza di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento, non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti ed, in particolare, dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, potendo persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale di quest’ultimo, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre (Tribunale di Roma, Sezione Prima Civile, Sentenza del 1° aprile 2014, n. 7400 Presidente Crescenzi, Giudice Relatore Silvia Albano; in senso conforme Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza del 22 agosto 2006, n. 18224; Cassazione civile, Sezione I, Sentenza del 24 marzo 2006, n. 6694).

D’altro canto, la medesima discrasia fra una difesa improntata sulla negazione della paternità ed il rifiuto di sottoporsi all’accertamento biologico, non poteva che essere letta dal giudice quale comportamento volto a fondare una più che verosimile presunzione di paternità. Prossimamente approfondiremo, invece, il tema delle conseguenze che derivano dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, vale a dire ciò che comporta, tale pronuncia, a livello patrimoniale e se la stessa possa costituire presupposto per il risarcimento del danno non patrimoniale.

Avv. Roberto Carniel – Studio Comite