Dedico questo post a un caro amico che sta vivendo il dramma di una relazione finita, che si batte ogni giorno per il riconoscimento del proprio diritto ad essere padre secondo ciò che il cuore gli detta e i criteri che la legge stabilisce e che, fortunatamente, vengono riaffermati e, anzi, ampliati, nell’interesse della prole, da alcuni giudici, bravi e coscienziosi. A quanti padri viene negato, dispoticamente e ingiustamente, il diritto di amare i propri figli e prendersi cura di loro per il solo fatto che gli stessi sono piccini? Quanti papà, capaci e amorevoli, vengono giudicati dalle loro ex compagne o mogli, unilateralmente e senza possibilità di appello, incapaci di accudire un figlio o una figlia in tenera età? Pappe pannolini, orari e igiene del bambino, insomma, non sarebbero prerogative maschili e, quindi, va da sé che i padri non siano in grado di svolgere tali funzioni. Giudizio, pregiudizio o semplicemente rancore non elaborato? Le ragioni di tali condotte sono molteplici e non compete a me indagarle o cercare di giustificarle. Ciò che assume rilievo, su un piano strettamente giuridico, è la genitorialità negata in danno di coloro che non hanno colpe e che non debbono subire i riflessi delle dinamiche emotive della coppia fallita. Il giudizio aprioristico di incapacità a svolgere il ruolo di padre, emesso in modo lapidario e granitico, da una donna ferita non può che essere inquinato dalla rabbia e raramente verrà suffragato dalle effettive modalità di cura poste in essere da un padre. Essere stati cattivi compagni o mariti non relega necessariamente e assiomaticamente gli uomini al ruolo marginale di “papà bancomat” o “papà delle feste”. Anzi…
OCCORRE RIORGANIZZARE LA RELAZIONE PER ESSERE BRAVI GENITORI Ogni volta che assumo l’incarico di tutelare uno o entrambi i componenti della coppia in crisi ripeto fino allo sfinimento che il fallimento del progetto di vita comune non significa, sempre e necessariamente, fallimento del proprio ruolo genitoriale. La coppia continua a vivere, ma in una dimensione diversa ovvero per l’unico interesse che permane: quello della crescita dei figli. Un bimbo, proprio come accade per il sole, è al centro del “sistema famiglia” ed è intorno a lui che la coppia genitoriale deve modulare bisogni e necessità. Ciò può avvenire solo se la coppia, nel suo insieme, a prescindere dai tempi di uno o dell’altra, elabora il proprio fallimento e impara a riorganizzare le relazioni familiari. In genere è chi chiede la separazione o chi si allontana dal nido familiare che per primo elabora tale fallimento o lutto, mentre per l’altro o l’altra i tempi sono più lunghi e dolorosi. Ciò che, d’altra parte, conta è il fatto che, prima o dopo, questa elaborazione si compia per il benessere dei bimbi, ovvero delle parti più deboli e vulnerabili del nucleo familiare che non devono essere oggetto della disgregazione ma soggetti protagonisti, nell’interesse dei quali gli adulti devono imparare a relazionarsi con modalità diverse e libere dal peso dei sentimenti di rancore, rabbia e risentimento tipici della relazione di coppia fallita.
IL PERCORSO EMOTIVO È SEMPRE DIFFICILE, MA NECESSARIO All’amico che si è rivolto a me per un conforto e che, per serenità d’animo, ho dirottato per gli aspetti professionali ad altra brava professionista, vorrei ricordare che dimenticare la propria storia affettiva, e il coinvolgimento emotivo che essa comporta, è impresa decisamente ardua. È assai più semplice ragionare per compartimenti stagni: “sei stato un cattivo compagno perché mi hai tradito e ci hai abbandonato e, quindi, non puoi essere un padre attento e capace”; oppure: “tu sei un maschio e, quindi, non possiedi alcun talento naturale o propensione al sacrificio che comporta la cura di un bimbo di pochi anni o mesi, ergo, con tuo figlio ci starai quando questo necessiterà di cure e attenzioni minori”. E ancora: “… il figlio è mio e decido io come e quando deve stare con te”. Questi sono in assoluto gli assiomi più difficili da demolire e, tuttavia, se non si arriva a comprendere che tali affermazioni sono il frutto della rabbia o, nella migliore delle ipotesi, di un pregiudizio, non si può pensare di essere veramente tutelanti degli interessi di un figlio che, prima o poi, manifesterà gli scompensi di una relazione squilibrata e segnata dal risentimento o dall’accusa di inadeguatezza. Insomma, se la prospettiva è l’interesse dei figli non si può non impegnarsi a trovare soluzioni che, seppure faticose per se stessi, generino benessere per i piccoli i quali traggono indubbiamente giovamento da un dialogo sereno e scevro di accuse quotidiane. Conflitto e dinamica degli opposti, che vuole e ricerca necessariamente “vinti” e “vincitori”, al contrario, rendono ciechi i genitori rispetto ai bisogni effettivi ed affettivi dei propri figli. Mi auspico, dunque, che la ex-compagna, e ora madre, sappia trovare le risorse interiori necessarie a superare il proprio vissuto e l’investimento emotivo che ciò ha comportato nell’unico interesse che deve prevalere.
LA RIFORMA DEL 2006 PONE IL BAMBINO AL CENTRO DEL SISTEMA FAMIGLIA Colgo l’occasione per rammentare che il diritto alla bi-genitorialità introdotto con la novella legislativa del 2006 (Legge n. 54 del 2006) salvaguarda l’interesse del minore garantendo a quest’ultimo il mantenimento di rapporti significativi e stabili con entrambe le figure genitoriali e con gli ascendenti e i parenti dei due rami familiari, nonostante la crisi della coppia. Ogni comportamento che ostacola gli incontri tra un figlio e l’altro genitore costituisce, dunque, violazione di questo sacrosanto diritto. In tale contesto l’affido condiviso tra i genitori viene considerato dalla legge e dai giudici la modalità più consona a garantire la presenza di entrambi i genitori nella vita dei figli. So che tali nozioni, di carattere prettamente giuridico, non saranno di grande conforto ma ciò che vorrei sottolineare al mio caro amico è che non deve arrendersi di fronte alla condotta ostruzionistica dell’ex compagna. Oggi il dolore e la rabbia impediscono alla madre un approccio sereno incentrato solo sull’interesse del piccolino ma sono convinta che il tempo ed un sostegno adeguato saranno in grado di aiutare tutti.
UN BEL PROVVEDIMENTO DEL TRIBUNALE DI MILANO CHE TUTELA I PAPÀ Altro motivo di conforto può essere rappresentato da una recente decisione del Tribunale di Milano che, in composizione collegiale (Presidente Nadia Dell’Arciprete, Relatore, nonché estensore, Giuseppe Buffone) in un caso riguardante proprio una coppia di fatto, nell’assumere provvedimenti provvisori ed urgenti nell’interesse della figlioletta di appena due anni ha appunto disposto l’affidamento condiviso della minore con prevalente collocamento presso la madre. L’abile calamaio del dott. Buffone ha sottolineato, inoltre, che non può essere limitato il diritto di visita del padre nei termini che la madre ha suggerito adducendo semplicemente che la piccola è troppo piccolina per pernottare con il papà. In regime di affidamento condiviso, con la scelta in ordine ai tempi di permanenza dei figli presso l’uno e l’altro genitore, il giudice si limita a fissare la “cornice minima” dei tempi di permanenza. Tuttavia la cornice minima data dal giudice deve essere pienamente adeguata alle esigenze delle famiglia e all’interesse dei minori, poiché deve potersi consentire ai figli di trascorrere con il genitore presso cui il minore non è collocato tempi adeguati ovvero dei fine settimana interi, e tempi infrasettimanali, garantendo una certa continuità di vita in questi periodi, nei limiti in cui ciò non interferisca con una normale organizzazione di vita domestica e consenta la conservazione dell’habitat principale dei minori presso il genitore domiciliatario (Tribunale di Milano, Sezione IX civile, Decreto del 14 gennaio 2015; ma così anche Corte d’Appello di Catania, Sezione Famiglia e Persona, Decreto del 16 ottobre 2013, Presidente Francola, estensore Russo; conforme: Tribunale di Milano, Sezione IX, Decreto del 3 giugno 2014).
I TEMPI DI PERMANENZA POSSONO ESSERE LIMITATI SOLO SE SI DIMOSTRA UN PREGIUDIZIO PER IL MINORE L’unica ipotesi in cui il giudice può limitare in modo significativo il diritto e dovere dei genitori di intrattenere con i figli un rapporto continuativo, è quella in cui si dimostri che da ciò può derivare pregiudizio al minore. Il preminente interesse dei figli, infatti, cui deve essere conformato il provvedimento del giudice, può considerarsi composto essenzialmente da due elementi: mantenere i legami con la famiglia, a meno che non sia dimostrato che tali legami siano particolarmente inadatti, e potersi sviluppare in un ambiente sano (CEDU: Neulinger c. Svizzera, 6.7.2010; CEDU: Sneersone e Kampanella c. Italia, 12.7.2011). Nel caso esaminato dal Collegio, peraltro, non sono stati rintracciati, invero, elementi sufficienti per una restrizione del diritto di visita del padre.
ANCHE I PAPÀ POSSONO OCCUPARSI DEI FIGLI IN TENERA ETÀ Il dott. Giuseppe Buffone continua precisando che è opportuno ricordare, come “la genitorialità si apprende facendo i genitori” e, dunque, solo esercitando il ruolo genitoriale una figura matura e affina le proprie competenze genitoriali; il fatto che, al cospetto di una bimba di due anni, un padre non sarebbe in grado di occuparsene, è una conclusione fondata su un pregiudizio che confina alla diversità (e alla mancanza di uguaglianza) il rapporto che sussiste tra i genitori. Questo significa, in sostanza, che non si può fare alcuna discriminazione tra ruolo materno e ruolo paterno perché ciò contrasterebbe con il principio della bi-genitorialità affermato dalla Legge n. 54 del 2006, salvo che non sussistano gravi situazioni che possano arrecare pregiudizio al minore. In un caso analogo a quello affrontato dal Tribunale di Milano, peraltro, la Corte d’Appello di Catania ha precisato che non condividere mai le abitudini della vita quotidiana rende la relazione tra due persone diversa da quella familiare, che, sul piano materiale, è appunto connotata dal vivere insieme dei momenti (mangiare, dormire) che non si condividono con estranei (Corte d’Appello di Catania, Sezione Famiglia e Persona, Decreto del 16 ottobre 2013, Presidente Francola, estensore Russo).
IL BUON SENSO È LA PRIMA REGOLA I giudici catanesi in occasione della decisione citata hanno poi sottolineato che l’affidamento condiviso implica la conservazione dell’esercizio pieno delle responsabilità genitoriali, il che significa non solo esercitare dei poteri (quale quello ad esempio di stabilire il luogo di residenza abituale del minore) ma anche adempiere dei doveri e tra questi quello di interpretare responsabilmente eventuali segnali di disagio dei figli e quindi, per esempio, ricondurli dalla madre se durante i week end presso il padre non riescono ad addormentarsi senza la presenza della mamma, o viceversa, chiamare il padre se durante i periodi di permanenza presso la madre i bambini manifestano il desiderio di vederlo.
IL DIRITTO DI VISITA VA TUTELATO DALLO STATO CON STRUMENTI IDONEI Per concludere vorrei sottolineare ancora che il diritto e dovere di visita di un padre nei confronti del figlio trova riconoscimento anche nell’ordinamento sovranazionale e in particolare viene considerato espressione del diritto alla vita privata e familiare sancito dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Su tale presupposto la Corte europea ha condannato l’Italia ad un indennizzo a favore di un papà, per la verità simbolico ma comunque emblematico, per non essere stata capace, malgrado i segnali di preoccupazione del padre e dei servizi sociali, di assumere misure pratiche e adeguate in modo rapido ed efficace per garantire l’esecuzione dei provvedimenti assunti dai giudici (Corte europea dei diritti dell’Uomo, Sezione II, Decisione del 17 dicembre 2013, n. 51930). Il caso, peraltro, trova conforto in altri precedenti simili (Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Lombardo c. Italia, decisione del 29 gennaio 2013; Piazzi c. Italia, decisione del 2 novembre 2010; Bove c. Italia, decisione del 30 giugno 2005).
IN CONCLUSIONE non posso che esprimere un sentimento di profonda comprensione e solidarietà nei confronti di tutti i papà che quotidianamente lottano per il riconoscimento del diritto dei loro piccoli a godere appieno sia della presenza materna sia di quella paterna. A loro rivolgo, peraltro, l’invito a rivolgersi a professionisti seri che siano in grado di non alimentare le dinamiche oppositive, sempre negative nei casi come quelli esaminati, e anzi che sappiano utilizzare tecniche di risoluzione del conflitto, alternative al giudizio, quali per esempio la mediazione familiare che ha come obiettivo ultimo la ricerca di soluzioni condivise partendo dalla comprensione dei bisogni dell’altro.
Avvocato Patrizia Comite - Studio Comite