Un’amica mi raccontava che quando scopri di essere in attesa di un bimbo sai già che la vita che c’è dentro di te è l’unica cosa che conta e che conterà in futuro. Sai già che farai di tutto affinché nessuno e niente possa nuocergli o ancor peggio mettere in pericolo la sua esistenza. Insomma per la creatura che cresce ogni giorno dentro di te desideri le cose migliori e ti auspichi che anche il resto del mondo condivida questo sentimento e gli riservi pensieri gentili e azioni generose o, per lo meno, che gli dedichi il rispetto che merita come essere umano. Peraltro, aggiungeva che emozioni analoghe e medesime aspettative, contrariamente al pensiero di alcuni, le prova anche il papà; forse con modalità di espressione diverse ma resta comunque il fatto indubitabile che il senso di paternità si sviluppa di pari passo con quello di noi mamme. Ebbene, ciò che mi ha indotta a ricordare tale episodio è una recente sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna, da parte dei giudici di primo e secondo grado, del primario di un reparto di ostetricia unitamente alla struttura ospedaliera in cui prestava la propria attività. Vediamo insieme su quali presupposti.
GINECOLOGIA E OSTETRICIA: ETICA E GIURISPRUDENZA Premetto che a mio giudizio, e credo di molti altri, le specializzazioni di ostetricia e ginecologia nell’ambito della medicina rappresentano settori di particolare interesse medico legale sia per i risvolti etici sia per quelli giuridici e ciò proprio per essere correlate all’evento nascita. Alcune importanti tematiche affrontate dalla legge e dalla giurisprudenza quali ad esempio quella del consenso informato assumono, pertanto, in tali ambiti, un significato decisamente più pregnante.
IN AMBITO SANITARIO L’INFORMAZIONE E’ UN DOVERE Va ricordato, tuttavia, in generale, che tra i principali doveri del medico rientra anche quello di garantire l’efficienza e l’adeguatezza, al caso clinico specifico, delle dotazioni strumentali presenti all’interno della struttura ove presta la propria attività. Ne consegue pertanto un obbligo di informativa che il medico dovrà fornire in occasione della raccolta del più ampio “consenso informato” alla prestazione sanitaria. Ciò risulta, peraltro, ribadito dai giudici di legittimità che hanno sottolineato che “la condotta di corretta informazione sul trattamento sanitario, specie quando è ad alto rischio, non appartiene a un momento prodromico esterno al contratto, ma è condotta interna al contatto medico sanitario ed è elemento strutturale interno al rapporto giuridico che determina il consenso al trattamento sanitario” (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 19 ottobre 2006, n. 22390). Ancora gli ermellini hanno evidenziato che “Il difetto di informativa corretta e completa circa i rischi, i benefici, il decorso post-operatorio, nonché le eventuali carenze, anche temporanee, della struttura ospedaliera sarà rilevante ed il medico sarà quindi chiamato a rispondere delle conseguenze sfavorevoli dell’intervento, anche se eseguito in modo diligente e conforme alla leges artis” (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 23 maggio 2001, n. 7027).
QUANDO LA STRUTTURA E’ CARENTE Nel caso di cui facevo cenno, esaminato dai giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello di Lecce), è stata accertata la responsabilità del primario e della stessa struttura per aver violato il dovere di informazione alla gestante in ordine alla carenza, presso il presidio ospedaliero, di attrezzature idonee a far fronte a parti prematuri e nel non aver predisposto tempestivamente il trasferimento ad altra struttura ospedaliera più adeguatamente attrezzata. La Suprema Corte conferma la correttezza di quanto stabilito dai giudici di prime e seconde cure e, in particolare, sottolinea che l’addotta completezza dell’informazione (da parte di primario e struttura), provata dal primario unicamente per testimoni e non per iscritto, aveva in ogni caso “ad oggetto la sola ed insufficiente circostanza dell’informazione dell’inesistenza di un reparto di pediatria neonatale presso il presidio di XY, ma non anche sui rischi e le conseguenze di tale situazione”. Ciò significa che pur volendo considerare di per sé provata la circostanza di aver fornito l’informativa riguardo alla carenza del reparto di patologia neonatale i giudici di legittimità hanno ritenuto comunque insufficiente l’informativa in ordine ai rischi e alle conseguenze che si sarebbero potuti verificare a causa di tale carenza strutturale (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 19 novembre 2013, n. 25907).
INFORMATIVA A PRESCINDERE In altra interessante e precedente decisione, i giudici della Cassazione sottolineano che l’informativa è dovuta a prescindere dal rapporto di dipendenza o collaborazione che intercorre tra medico e struttura e dunque confermano la correttezza di quanto stabilito dai giudici dell’appello evidenziando che “La conclusione è corretta in diritto, in quanto l’obbligo informativo circa i limiti di equipaggiamento o di organizzazione della struttura sanitaria grava, in ipotesi siffatte, anche sul medico, convenzionato o non con la casa di cura, dipendente o non della stessa, che abbia concluso con la paziente un contratto di assistenza al parto (o, con qualunque paziente, di tipo comportante la possibilità dell’instaurarsi di situazioni patologiche che non sia agevole fronteggiare) presso la casa di cura in cui era convenuto che ella si sarebbe ricoverata. E ciò non solo per la natura trilaterale del contratto, ma anche in ragione degli obblighi di protezione che, nei confronti della paziente e dei terzi che con la stessa siano in particolari relazioni, come l’altro genitore ed il neonato, derivano da un contratto che abbia ad oggetto tale tipo di prestazioni. Ne consegue che, in caso di violazione dell’obbligazione di informare, ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se fosse stato adeguatamente informato (secondo uno schema analogo a quello descritto, in tema di consenso informato, da Cass., n. 2847/10), delle conseguenze derivate dalle carenze organizzative o di equipaggiamento della struttura risponde anche il medico col quale il paziente abbia instaurato un rapporto di natura privatistica” (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 17 febbraio 2011, n. 3847; analogamente Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza dell’1 febbraio 2011, n. 2334).
IL MEDICO NON HA SCUSE “La mancanza nel nostro ordinamento di uno standard di riferimento degli strumenti di cui una struttura sanitaria pubblica deve necessariamente disporre non esime il medico (…) dal dovere di informarli della possibile inadeguatezza della struttura per indisponibilità, anche solo momentanea, di strumenti essenziali per una corretta terapia o per un’adeguata prevenzione di possibili complicazioni, tanto più se queste siano prevedibili in relazione alla particolare vulnerabilità del prodotto di concepimento (…)” (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 16 maggio 2000, n. 6318).
La grande proliferazione di decisioni sul punto e nel senso sopra citato mi induce a credere che non venga data sufficiente diffusione a tali dati e che sarebbe opportuna una formazione specifica in ambito sanitario anche in relazione all’esame e allo studio dell’errore in funzione della sua prevenzione e quindi della gestione del rischio clinico. Mi auspico, dunque, che riguardo all’obbligo di formazione in ambito clinico (educazione continua in medicina) vengano invitati non solo relatori medici ma anche giuristi che diffondano gli orientamenti giurisprudenziali prevalenti. Conoscere i precedenti equivale a dire che si è in grado di gestire le situazioni di rischio nell’ottica di una prestazione sanitaria sempre più aderente all’interesse del paziente.