Traggo spunto da una questione strettamente giuridica, sottoposta alla mia attenzione da un nostro lettore, per svolgere alcune brevi considerazioni in materia di prescrizione e decadenza dall’azione giudiziale per ottenere l’equo indennizzo per i danni subiti a causa dell’irragionevole durata del processo, tratte dall’esame dell’art. 4 della Legge del 24 marzo 2001, n. 89, più nota come legge Pinto. Un testo decisamente “tecnico” ma preludio utile a evidenziare nei prossimi post le criticità della legge sotto il profilo degli insufficienti fondi messi a disposizione dal Governo e che rendono pressoché vane le eventuali richieste promosse dal cittadino nei confronti dello Stato...
“NON E’ GIUSTO QUEL PROCESSO CHE SI CONCLUDA IN TEMPI IRRAGIONEVOLI” Come sarà noto a molti, questa legge tutela il diritto del cittadino ad avere un processo che si concluda in termini ragionevoli. L’art. 2, comma I, prescrive che: “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della l. 4.8.1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, pag. 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”. Per riprendere le parole della Suprema Corte di Cassazione potremmo anche dire che, “non è giusto quel processo penale, civile, amministrativo, contabile, che si concluda in tempo irragionevole, a prescindere dall’esito della lite” (Cass. Civ. sentenza del 15 gennaio 2003, n. 521; Cass. Civ. sentenza del 07 aprile 2006, n. 8156; Cass. Civ. sentenza del 24 gennaio 2008, n. 1520).
VITTIMA SOCCOMBENTE O VITTORIOSA In altri termini, la vittima in un processo può essere considerata tanto la parte vittoriosa quanto la parte soccombente, essendovi in gioco diritti inviolabili di ogni persona. Quanto alla durata, i giudici nazionali ritengono ragionevole il termine di tre anni per il giudizio di primo grado e di due anni per il giudizio di secondo grado. È importante sottolineare che, ai sensi dell’art. 2, comma III, lett. a) ai fini della liquidazione dell’indennizzo, non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata (Cass. Civ. sentenza del 12 gennaio 2009, n. 409).
QUINDI? Ebbene, la questione controversa che analizzeremo concerne proprio il termine di prescrizione ai fini dell’azionabilità del ricorso in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della Legge n. 89/2001. Dobbiamo sostanzialmente chiederci se, la previsione della sola decadenza dall’azione giudiziale per ottenere l’equo indennizzo per i danni subiti a causa dell’irragionevole durata del processo (art. 4, l. 2001, n. 89), con riferimento al mancato esercizio di essa nel termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della decisione che ha definito il procedimento (sei mesi dalla pubblicazione della sentenza), escluda la decorrenza dell’ordinario termine di prescrizione.
COSA MANCA? Sul punto, molte pronunce di merito e di legittimità (ex multis, Corte d’Appello di Napoli, sentenza del 04 agosto 2008; Corte d’Appello di Reggio Calabria, sentenza del 06 novembre 2008; Cass. Civ. sentenza del 24 febbraio 2010, n. 4524; Cass. Civ. sentenza del 27 giugno 2008, n. 17703), hanno sostenuto l’assoggettabilità a prescrizione del diritto all’equa riparazione. Il motivo? Non vi è nel sopracitato art. 4 alcuna previsione speciale che deroghi al principio generale della prescrizione del diritto per decorso del tempo. In altre parole, il termine decadenziale previsto dall’art. 4 non può determinare l’automatica sospensione del termine di prescrizione, in quanto, per pacifica giurisprudenza sul punto, l’istituto della sospensione della prescrizione può solo verificarsi nei casi tassativamente previsti ex artt. 2941-2942 c.c. (Cass. Civ. sentenza n.8677/06) ed è insuscettibile di interpretazione analogica e/o estensiva (Cass. Civ. sentenza n. 8533/06).
LA SUPREMA CORTE RISPONDE CON UNA SENTENZA A SEZIONI UNITE Ebbene, tutte queste pronunce sono state superate dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza a Sezioni Unite del 02 ottobre 2012, n. 16783. Vediamo in sintesi cosa ha affermato la Suprema Corte e quali sono stati i principi posti alla base della pronuncia. Le Sezioni Unite hanno disposto che “la previsione della sola decadenza dall’azione giudiziale per ottenere l’equo indennizzo a ristoro dei danni subiti a causa dell’irragionevole durata del processo, contenuta nell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, con riferimento al mancato esercizio di essa nel termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della decisione che ha definito il procedimento presupposto, esclude la decorrenza dell’ordinario termine di prescrizione, in tal senso deponendo non solo la lettera dell’art. 4 richiamato, norma che ha evidente natura di legge speciale, ma anche una lettura dell’art. 2967 cod. civ. coerente con la rubrica dell’art. 2964 cod. civ., che postula la decorrenza del termine di prescrizione solo allorché il compimento dell’atto o il riconoscimento del diritto disponibile abbia impedito il maturarsi della decadenza; inoltre, in tal senso depone, oltre all’incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonché il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l’operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo”.
IL TEMPO PASSA: DURATA E DISTANZA Quindi, secondo la ricostruzione delle Sezioni Unite, l’inammissibilità del concorso simultaneo dei due termini per il medesimo atto da compiere, deriva dal fatto che, pur essendo prescrizione e decadenza “connesse all’inerzia del soggetto e dirette a dare certezza ai rapporti giuridici”, il loro referente, il tempo, in un caso viene in considerazione come “durata”, mentre nell’altro come “distanza” (Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza del 27 ottobre 2009, n. 22719) rendendo rilevante rispettivamente l’inerzia protratta per un certo tempo, suscettibile di interruzione e sospensione, e il “solo fatto che un’inerzia ci sia o sia cessata”, a prescindere da ogni situazione interruttiva o sospensiva, di conseguenza non può essere a livello logico e sistematico, una ipotesi normativa che consideri il soggetto inerte e no in riferimento allo stesso atto da compiere. In conclusione, è pacifico che l’art. 4 della l. 89/2001 “consente” di non esercitare il diritto ex lege previsto fino a sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza; sarebbe allora semplicemente contraddittorio un sistema in cui la stessa inerzia, seppur prolungata per tutta la durata del processo, possa provocare l’estinzione del diritto alla ragionevole durata, precludendo al tempo stesso la proponibilità della relativa azione giudiziaria.
FACCIAMO UN ESEMPIO Un esempio potrà meglio chiarire la questione: se la causa di primo grado, civile o penale, è iniziata nel 1990 e la sentenza è stata pubblicata il 20 settembre del 2013 l’interessato avrà diritto a vent’anni (vanno infatti decurtati tre anni considerati adeguati dalla legge) di equo indennizzo (circa euro 1.000,00= per ogni anno, ma potrebbero anche essere di più). Ciò significa che l’inerzia di esercizio del diritto, in pendenza di processo, non produce di per sé l’estinzione del diritto a fronte della decorrenza del termine di prescrizione stabilita in dieci anni, essendo appunto stabilito che il diritto decade solo dopo che è trascorso il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza.
Peraltro, tale tesi risulta altresì condivisibile per questioni di natura eminentemente pratica, legate alla difficoltà per il soggetto titolare del diritto all’equa riparazione di accertare la maturazione della durata irragionevole del giudizio da cui far decorrere il termine di prescrizione, essendo tale valutazione soggetta a più variabili, apprezzabili sovente soltanto al termine dell’intero iter processuale.
Avv. Roberto Carniel – Studio Comite