Negli ultimi tempi, i magistrati e l’intero potere
giudiziario sono stati spesso al centro di attacchi e critiche da parte non
solo di comuni cittadini, ma anche di politici o, comunque, esponenti degli
altri poteri dello Stato, che hanno rivolto all’indirizzo di sentenze e
magistratura parole e commenti duri ed eccessivi, tali da mettere finanche in
dubbio la stessa indipendenza, imparzialità e terzietà dei giudici. Tali
critiche sono lecite o diffamatorie? Oltre a ledere potenzialmente la dignità
personale e la professionalità degli stessi magistrati criticati, non potrebbe
astrattamente incidere, influenzandole, sull’indipendenza e autonomia della
magistratura? È importante capire con quali modalità e soprattutto i limiti che
occorre tenere d’occhio per il corretto esercizio del diritto di critica…
LA VICENDA oggetto
della sentenza in commento nasce da un procedimento penale nei confronti di
un’insegnante, imputata di aver abusato dei mezzi di correzione nei confronti
di un alunno, avendolo costretto a scrivere per cento volte sul quaderno “sono
un deficiente”, per aver apostrofato come gay un suo compagno. L’insegnante era
stata assolta e, nel conseguente appello, il magistrato, che aveva istruito il
procedimento penale, aveva paragonato i metodi educativi dell’insegnante a
quelli della rivoluzione culturale maoista del 1966, in quanto, affermava, è
costume dei ragazzi apostrofarsi, reciprocamente e spesso per scherzo, con
espressioni omofobiche. Abitudine, certo, non lodevole, ma largamente diffusa
ed anche largamente tollerata dalla società. L’accostamento dei metodi
educativi dell’insegnante a quelli della rivoluzione culturale cinese del 1966
e la giustificazione, quale fatto di costume, dell’uso, pur deplorevole, di
espressioni omofobiche, non erano piaciute ad una associazione omosessuale,
che, criticando sul proprio sito Internet il tenore dell’intero atto di appello
del magistrato, gli aveva attribuito atteggiamenti di grettezza machista, omofobia e misoginia. Da qui, pertanto, la
querela del magistrato per diffamazione.
LA CORTE DI CASSAZIONE
chiamata ad intervenire sulla vicenda, ha affrontato la questione sia da un punto di vista generale
(differenza tra diritto di critica e
diritto di cronaca) sia da un punto di vista specifico (funzioni e
limiti del diritto di critica
giudiziaria). Sotto il primo profilo, infatti, i giudici di legittimità
hanno ricordato che il diritto di critica si differenzia dal diritto di cronaca
poiché non si concretizza nella narrazione di fatti (come fa appunto la
cronaca), ma nell’espressione di
un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva,
dal momento che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva,
di fatti e comportamenti. Da ciò consegue che, in materia di diritto di
critica, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni assertive
dell’articolista, in quanto il requisito
della verità è limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base
delle opinioni e delle valutazioni espresse. Nel caso di specie, rispondevano
al vero sia il paragone con i metodi da rivoluzione culturale cinese sia
l’asserita giustificabilità dell’uso di espressioni omofobiche, origine e causa
della critica incriminata, nella quale peraltro non si riscontrava alcuna
ostilità personale nei confronti del magistrato autore dell’atto di appello
oggetto della critica.
SOTTO IL PROFILO DEL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA poi, la Corte di Cassazione ha osservato che il diritto di
critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve
essere riconosciuto nel modo più ampio
possibile, non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più
larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i
provvedimenti che esso può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico
dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata in
nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà
della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza (Cassazione penale, V Sezione, Sentenza del
27 giugno 2016, n. 26745; Cassazione penale, V Sezione, Sentenza n. 34432 del
2007; Cassazione penale, V Sezione, Sentenza del 6 luglio 2004, n. 29232).
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO chiamata negli anni e in diverse occasioni a decidere casi
analoghi, è pervenuta a medesime conclusioni. Partendo, infatti, dall’art. 10
(“Libertà di espressione”) della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, i giudici europei hanno
precisato che i limiti di critica ammissibili nei confronti dei magistrati
nell’esercizio delle loro funzioni sono più ampi rispetto ai privati, sebbene
in ogni caso i magistrati non possano essere equiparati ai politici per i quali
la critica è ancora più ampia. Quindi, critica sì, ma entro alcuni limiti volti
a tutelare il potere giudiziario da
attacchi gratuiti e infondati che potrebbero essere motivati unicamente da
una volontà o una strategia di portare il dibattito giudiziario su un piano
strettamente mediatico o di entrare in polemica con i magistrati che si
occupano del caso (ex multis, Sentenza
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 30 giugno 2015, Ricorso n.
39294/09, Peruzzi c. Italia).
IN SINTESI è
riconosciuto il diritto dei cittadini di criticare i magistrati, ma soltanto quale
forma di bilanciamento rispetto alla loro indipendenza, autonomia e funzione
pubblica e per questo, limitato dalla necessità di assicurare che non sia
compromessa la fiducia che la collettività deve avere nell’amministrazione
della giustizia.
Avvocato Gabriella Sparano – Redazione
Giuridicamente parlando