lunedì 17 novembre 2014

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: MARITO ALLONTANATO ANCHE SE SUL PROFILO FACEBOOK DELLA MOGLIE SEMBRA ESSERE TUTTO TRANQUILLO


Traggo spunto da una recente sentenza della Corte di Cassazione penale, per affrontare ancora una volta il delicato argomento dei maltrattamenti in famiglia, già trattato di recente dalla dott.ssa Roberta Bonazzoli in relazione, tuttavia, a una questione processuale diversa. Purtroppo il tema è sempre attuale e spesso preponderante nelle notizie di cronaca nera. A onore del vero e spezzando una lancia in favore delle forze dell’ordine e dei giudici meneghini posso dire che nell’ipotesi di denunce di maltrattamenti fisici o psicologici, posti in essere all’interno della famiglia, e ancor più in presenza di minori, la reazione delle Autorità milanesi è quasi sempre tempestiva. Ciò, sia nell’applicazione di misure finalizzate alla protezione immediata delle persone maltrattate e, quindi, di per sé deboli, sia nella punizione del fatto-reato valutato con maggior gravità laddove perpetrato, appunto, all’interno del nucleo familiare. Per la nostra esperienza, quindi, specie nei casi in cui la denuncia sia accompagnata dall’intervento di un avvocato, occorre sottolineare che sia le forze dell’ordine che ricevono le denunce sia le Autorità preposte all’applicazione dei provvedimenti, assumono in genere un atteggiamento serio e veloce ma, soprattutto, teso a non sottostimare certe condotte a prescindere anche dalle apparenze di serenità che emergono ad esempio, da un profilo personale su Facebook. La decisione in questione è, dunque, un’utile occasione per esaminare quali siano i comportamenti puniti e in che modo il nostro ordinamento può intervenire a tutela dei familiari maltrattati…

COSA PREVEDE LA LEGGE? L’art. 572 del codice penale, intitolato “Maltrattamenti contro i familiari e conviventi” è collocato nel capo IV che disciplina i delitti contro l’assistenza familiare e punisce in particolare, con la reclusione da due a sei anni, chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte. Pene più gravi sono previste nel caso in cui, dal fatto, derivi una lesione personale grave, (reclusione da quattro a nove anni), una lesione gravissima (reclusione da sette a quindici anni), mentre in caso di morte la reclusione è da dodici a ventiquattro anni. Va precisato, inoltre, che la sanzione sarà più elevata laddove la condotta maltrattante si concretizzi in un’ipotesi di reato più grave come per esempio accade nel caso in cui un uomo costringa la convivente o la moglie ad avere rapporti sessuali non voluti; in tale circostanza è chiaro che il reato contestato non sarà solo quello dei maltrattamenti in famiglia ma, a questo, andrà ad aggiungersi quello di violenza sessuale.

AMBITI DIFFERENTI La norma di legge, poi, non è circoscritta al ristretto ambito dei rapporti familiari ma in essa sono ricomprese tutte quelle relazioni, come per esempio quelle scolastiche, in cui un soggetto assume la qualità di tutore o insegnante, vigilante o curante di un individuo a lui sottoposto. Vi è, dunque, una specie di assimilazione per il fatto che in entrambi i casi alcuni soggetti si trovano in una situazione di debolezza rispetto ad altri. Va, infine, ricordato che perché si possa parlare di reato di maltrattamenti le percosse, le vessazioni, le ingiurie e le minacce devono protrarsi nel tempo altrimenti si tratterà di commissione di altri reati ovvero quello singolo di percosse e via dicendo.

DISPREZZO E OFFESA = MALTRATTAMENTO Sul punto, i giudici della Suprema Corte hanno più volte affermato il principio per il quale: “Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma, anche, gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali”. I giudici, dunque, ritengono che nel concetto di maltrattamento rientrino, in sintesi, anche tutti quei comportamenti verbali che si concretizzino in vessazioni di carattere psicologico e morale. Ciò significa che compie indubbiamente il reato di maltrattamenti in famiglia il marito che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni, in quanto costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza. Rilevano, dunque, non soltanto le percosse e le lesioni ma anche le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima. E ancora, tutti gli atti di disprezzo e di offesa arrecati alla sua dignità, che si risolvano nell’inflizione di vere e proprie sofferenze morali (Cassazione penale, Sezione VI, Sentenza del 13 ottobre 2014, n. 42753; Cassazione penale, Sezione VI, Sentenza dell’1 agosto 2014, n. 34197; Cassazione penale, Sez. VI, Sentenza del 6 novembre 2013, n. 44700; Cassazione penale, Sezione VI, Sentenza del 2 agosto 2010, n. 30601). In presenza di tali condotte, oltre alla misura della detenzione in carcere, per la cui applicazione è necessaria una motivazione ben articolata e specifica, possono trovare applicazione misure cautelari personali, finalizzate alla protezione dei soggetti maltrattati quali l’allontanamento dalla casa familiare, disciplinato dall’art. 282 bis del codice di procedura penale (norma introdotta nel 2001) e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa previsto invece dall’art. 282 ter del medesimo codice. Vediamole in estrema sintesi…

ALLONTANAMENTO DALLA CASA FAMILIARE È uno dei provvedimenti che il giudice può ritenere necessario a tutela dell’incolumità della vittima dei maltrattamenti e, dunque, per evitare che la condotta in questione si ripeta. Con il provvedimento che dispone l’allontanamento, il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice stesso. Qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti (la norma sembra quindi escludere l’applicabilità della misura al convivente), il giudice può prescrivere, in via accessoria rispetto alla misura principale e in dipendenza della stessa, che l’imputato non si avvicini a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il Giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni. Su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. 

DIVIETO DI AVVICINAMENTO L’art. 282 ter del codice di procedura penale, di recente introduzione (anno 2009, attraverso il Pacchetto Sicurezza costituito dal Decreto Legge n. 11/2009, convertito nella Legge n. 38/2009, e dalla Legge n. 94 del 2009), intitolato “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”, dispone che il giudice, può disporre il divieto all’imputato di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa. Tale divieto può estendersi anche ai luoghi abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone. Non solo! Il giudice può anche vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le suddette persone. Anche se le due norme sembrano simili tra loro in realtà muovono da presupposti diversi; da un lato l’allontanamento dalla casa familiare (che può essere corredato da prescrizioni accessorie), dall’altro la separazione spaziale dei soggetti coinvolti, non limitato ai congiunti ma esteso anche alle relazioni di convivenza. Il vero elemento di novità dell’istituto di più recente introduzione concerne, comunque, il divieto di avvicinamento materiale e virtuale alla vittima, indipendentemente dal luogo in cui essa si trovi, prescrizione non riconducibile ad alcuna delle precedenti misure. Passiamo ora ad esaminare il caso concreto…

IL FATTO Un marito era stato imputato del reato di maltrattamenti contro la moglie in virtù dei fatti da quest’ultima narrati. L’uomo, secondo la descrizione fatta dalla donna, bestemmiava e offendeva la stessa in ogni occasione, anche in presenza dei figli minori, era spesso ubriaco e aveva tentato di costringerla a subire atti sessuali con la forza. Da tutto ciò, l’inevitabile richiesta di separazione della donna e le denunce tra cui quella per maltrattamenti. Il G.I.P. (Giudice delle Indagini Preliminari) aveva disposto la misura coercitiva e cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, prevista dall’art. 282 bis del codice di procedura penale e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla moglie con la prescrizione di mantenersi ad una distanza non inferiore a 500 metri da quest’ultima. L’uomo si era difeso affermando che il matrimonio non era assolutamente in crisi richiamando, quale elemento di prova a suo favore, i post pubblicati dalla moglie sul proprio profilo facebook dai quali, sempre secondo il marito, emergeva una situazione familiare serena e diametralmente opposta a quella raccontata dalla moglie.

COME È FINITA? I giudici della Cassazione penale hanno respinto il ricorso del marito. Sostanzialmente, la Suprema Corte ha osservato e ribadito che i post su Facebook non sono idonei a provare che la situazione coniugale fosse serena, essendo plausibile che fossero stati inseriti dopo temporanee riappacificazioni; peraltro, i racconti della moglie in relazione alle continue aggressioni subite dal marito, anche fisiche, non potevano che essere ritenuti attendibili in quanto compatibili sia con i referti ospedalieri, sia con i riscontri testimoniali. In altre parole, è stato ampiamente provato il clima terribile in cui la donna era stata costretta a vivere, o forse sarebbe più corretto dire sopravvivere, clima che non poteva certo essere smentito o sconfessato da poco significativi post pubblicati dalla moglie, probabilmente nei rari momenti di pace, sul social network (Cassazione penale, Sezione III, Sentenza dell’8 ottobre 2014, n. 41936). Non dimentichiamo, infatti, che uno degli elementi tipici della difficoltà a denunciare situazioni di maltrattamento familiare è la speranza, sovente insita nella vittima, che miracolosamente e all’improvviso le condotte maltrattanti cessino. Spesso, purtroppo, tali speranze diventano illusioni alimentate da brevi momenti di lucidità e serenità. Resta, tuttavia, il fatto incontestabile, che la condotta maltrattante è già stata posta in essere e che difficilmente l’aggressore cambierà d’improvviso il proprio modo di essere. 


Avv. Roberto Carniel – Studio Comite

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