lunedì 7 luglio 2014

NASCITA INDESIDERATA: NESSUN RISARCIMENTO SENZA PROVA DELLA LESIONE DI UN DIRITTO



Qualche settimana fa la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di tornare nuovamente sul dibattuto e attualissimo argomento della risarcibilità dei danni da nascita indesiderata. La problematica coinvolge infatti non solo, come evidenziato nel caso che ho affrontato personalmente di recente avanti al Tribunale di Milano, l’ipotesi di lesione del diritto all’autodeterminazione e alla scelta di una genitorialità libera e consapevole ma anche le ipotesi in cui la gestante, a causa del mancato rilievo da parte del sanitario dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, perda la possibilità di esercitare il diritto all’aborto. Per la verità nel caso affrontato si è limitata a confermare un recentissimo orientamento della stessa Corte sulla base del quale non si può dare luogo al risarcimento, poiché non vi è prova della lesione di un diritto, se la gestante non ha dimostrato che se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe senza dubbio interrotto la gravidanza, né tale prova può essere desunta dal solo fatto della esistenza della richiesta di essere sottoposta agli esami finalizzati alla verifica dell’esistenza di eventuali anomalie del feto. In altre parole è la donna che deve provare che se avesse saputo delle malformazioni del bambino avrebbe scelto indiscutibilmente di non portare avanti la gravidanza perché ciò avrebbe inciso sulla sua salute psichica. Cerchiamo, dunque, di capire meglio il processo logico che ha indotto a confermare questo principio …


TUTTO SOTTO CONTROLLO? Il caso esaminato dai giudici di merito riguardava due coniugi che avevano chiamato in giudizio la ASL chiedendone la condanna al risarcimento dei danni cagionati dal negligente compimento della propria attività professionale da parte dei sanitari della struttura. I due genitori, in particolare, esponevano nell’atto contenente la loro domanda (atto di citazione), che la gestante si era recata presso l’ospedale di (…), dove, appreso del suo stato di gravidanza, era stata invitata a seguire un programma di controlli ginecologico, radiologico ed ecografico cui si era scrupolosamente attenuta. In occasione di ciascuno dei previsti controlli, le era sempre stato assicurato che il feto era normale e che tutto procedeva secondo norma. Ciò nonostante, nel novembre del 1997, sarebbe venuto alla luce un bimbo privo di due dita e affetto da ipoaplasia congenita del femore sinistro. Gli attori (i genitori) imputarono, pertanto, ai sanitari un duplice profilo di responsabilità, sotto l’aspetto sia del difetto di informazione, sia della non corretta esecuzione o interpretazione degli esami che avrebbero potuto svelare per tempo la malformazione, chiedendo, per tale fatto, il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sopportati per la nascita non desiderata.


LA VOLONTÀ DI INTERRUZIONE DI GRAVIDANZA DEVE ESSERE DICHIARATA La Cassazione, quindi, ha affermato che in mancanza della dimostrazione di una espressa manifestazione di volontà da parte della gestante di voler interrompere la gravidanza in caso di malformazioni del feto è indimostrato che vi sia stata lesione di diritti e, quindi, non si può dar luogo a risarcimento del danno. Non basta, infatti, che la donna dimostri, nel corso del giudizio di merito, di aver chiesto ed effettuato esami strumentali volti alla ricerca di eventuali malformazioni (questo è solo un indizio di tale volontà). La volontà dell’interruzione della gravidanza, consentita in base al disposto normativo previsto dall’art. 6 primo comma, lettera b), della Legge n. 194 del 22 maggio 1978, nell’ipotesi di tale scoperta, deve essere esplicita e non può in alcun modo essere desunta da indizi come era stato appunto addotto dai richiedenti nel caso affrontato. È sulla parte che formula la domanda di risarcimento che incombe, infatti, l’onere di integrare il contenuto della presunzione semplice (richiesta degli esami strumentali) con elementi probatori ulteriori e sufficientemente significativi da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza di quel labile elemento indiziario a quanto affermato nell’atto che ha dato impulso all’azione giudiziaria (atto di citazione), non incombendo, invece, sul medico l’onere di provare che, in presenza di una tempestiva informazione, la gestante non avrebbe potuto o voluto abortire (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 30 maggio 2014, n.12264). 

NON BASTANO GLI INDIZI PER ACCOGLIERE LA RICHIESTA DI RISARCIMENTO Secondo il Tribunale di Tolmezzo, in primo grado, e della Corte d’Appello di Trieste, in grado di appello, nel caso esaminato non vi era, dunque, responsabilità dei sanitari. Il giudice di primo grado, infatti, ha respinto la domanda ritenendo oggettiva la impossibilità di individuare la patologia attraverso l’ecografia morfologica, eseguita in ventunesima settimana dal ginecologo, al quale non ritenne parimenti addebitabili ulteriori profili di negligenza quanto alla mancata rilevazione della anomala lunghezza del femore, atteso che la corretta scienza medica, ovvero le linee guida cui i sanitari devono attenersi con riguardo appunto alla gravidanza, prevedeva la misurazione di uno soltanto dei quattro arti (operazione, nella specie, diligentemente compiuta senza che fosse venuta in rilievo una qualsiasi anomalia). La Corte d’Appello di Trieste, corretta in parte la motivazione della prima sentenza, ritenne quindi del tutto carente la prova circa il nesso eziologico (causale) tra la condotta (peraltro ritenuta colpevolmente omissiva) e il danno lamentato a cagione della omessa informazione sullo stato di salute del feto. Specificò, in proposito, il giudice d’appello come fosse rimasto indimostrato che una corretta visualizzazione di tutti gli arti (nella specie, colpevolmente omessa) e una precisa misurazione con riferimento visivo all’arto contro laterale (quello poi rivelatosi colpito dalla ipaoplasia) avrebbero avuto serie ed apprezzabili probabilità di rivelare la specifica patologia di cui il feto si sarebbe poi rivelato portatore.

UN PRINCIPIO SUPERATO Il reclamo presentato dai coniugi era, infatti, sostanzialmente fondato sulla circostanza secondo la quale i giudici di merito non avevano fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla stessa Corte in altre pronunce (ovvero la n. 13 del 2010 e la n. 14488 del 2005) che, invece, laddove correttamente richiamati, avrebbero indotto a una affermazione di responsabilità dei sanitari e della ASL. Il principio richiamato dai ricorrenti era, in sintesi, quello in base al quale la semplice omessa rilevazione da parte del medico delle gravi malformazioni e la correlativa mancata informazione di tale evidenza clinica alla gestante erano sufficienti a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio da parte della donna del diritto all’interruzione di gravidanza, facoltà concessa alla stessa dall’art. 6 primo comma, lettera b) della Legge 194/1978. I ricorrenti reclamano, dunque, l’applicazione del principio che ritiene sufficiente una presunzione semplice (su base appunto indiziaria) per ritenere provata la lesione del diritto. 

LA SUPREMA CORTE NON CONCORDA PIÙ poiché ritiene, invece, di aderire al cambiamento di rotta, recentemente espresso in altre pronunce, secondo il quale la lesione del diritto previsto e disciplinato dalla norma richiamata, può essere reclamato e la richiesta risarcitoria non può che essere accolta solo se alla presunzione semplice segua, da parte della richiedente, la prova specifica, espressa e incontestata che, laddove messa a conoscenza dell’esistenza di gravi malformazioni del feto, avrebbe esercitato la facoltà, legislativamente prevista, di interrompere la gravidanza. Il collegio ha, dunque, ritenuto di dare continuità al più recente orientamento, che appare più rispettoso delle regole probatorie stabilite dalla legge per il processo civile, oltre che più consapevole della estrema delicatezza di una questione sicuramente nodale dell’intera vicenda risarcitoria, vale a dire la precisa assunzione di responsabilità che consegue alle dichiarazioni espresse, in tali circostanze, dalla donna, unico soggetto cui la legge (e non solo) riconosce il diritto di decidere, sia pur a precise condizioni, della prosecuzione o meno di una gravidanza (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 30 maggio 2014, n.12264; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 10 dicembre 2013, n. 27528; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 22 marzo 2013, n. 7269; Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 2 ottobre 2012, n. 16754).

CI SARÀ ANCORA MOLTO DA DISCUTERE L’argomento indubbiamente farà ancora molto discutere per tutte le implicazioni ad esso sottese e per la stessa ammissione dei giudici secondo cui per quanto sforzo si possa compiere per giungere a decisioni aderenti ai dettami legislativi gli strumenti che il diritto pone a disposizione sono ancora inadeguati “ad offrire risposte appena accettabili a dolorose e talvolta sconvolgenti vicende umane e familiari”.