Non ha nulla a che fare
con il traffico urbano e non indica neppure una vendita illecita di influenze
fasulle per lavoratori assenteisti. In realtà, questa espressione suggestiva ed
affascinante, ma sconosciuta ed insignificante per i più, altro non è che il
nome di un reato introdotto dalla Legge Severino, che ha riformato la
disciplina di vari reati contro la pubblica amministrazione. L’occasione per
venirne a conoscenza è stata fornita dal clamore mediatico che sta
accompagnando la notizia di un’inchiesta per corruzione negli appalti delle
pubbliche amministrazioni, che vedrebbe coinvolto anche il padre dell’ex
Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Vediamo, allora, di cosa si sta
parlando ed in cosa consista esattamente questo reato.
LE RELAZIONI E LE
PROMESSE
Tale ipotesi di reato disciplinato dall’articolo 346 bis del codice penale, si
configura per chi, sfruttando relazioni
esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico
servizio, indebitamente fa dare o
promettere, a sé o ad altri, denaro
o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in
relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o
all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio. La pena prevista è la
reclusione da uno a tre anni. Oggetto della condotta illecita così sanzionata
ed essenza stessa del reato in questione è, quindi, la promozione di un accordo corruttivo, un’indebita
mediazione verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (e
non in genere verso un qualsiasi dipendente pubblico, cioè un “pubblico
impiegato”), diretta ad alterare un’attività amministrativa che, ai sensi
dell’articolo 1 della legge n. 241/1990,
deve perseguire i fini determinati dalla legge e deve essere sempre retta da
criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza.
L’ATTO DI UFFICIO rappresenta quindi
l’obiettivo finale a cui mira la condotta illecita sanzionata dal reato in
esame, venendo ad essere eluso, omesso, tardato o stravolto, a seconda
dell’interesse particolare del compratore
di influenze, sponsorizzato e promosso dal mediatore. Il concetto di atto di ufficio comprende
una vasta gamma di comportamenti umani, effettivamente o potenzialmente
riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale. Secondo la dottrina prevalente, per determinare se un atto discrezionale
sia contrario ai doveri di ufficio, occorre accertare la violazione delle
regole inerenti l’uso del potere discrezionale, che si verifica quando l’agente
pubblico non persegue l’interesse concreto per il quale il potere gli è stato
conferito dalla legge o non rispetta i precetti di logica e di imparzialità
sempre sottesi all’azione amministrativa. Secondo
la giurisprudenza della Corte di Cassazione, deve ritenersi violato il
dovere di ufficio di agire con imparzialità nella ricerca dell’interesse
pubblico quando, a fronte, della possibilità di adottare più soluzioni, il
pubblico ufficiale operi la sua scelta in modo da assicurare (anche con
omissioni o ritardi) il maggior beneficio per il compratore di influenze, che
lo ha “agganciato” attraverso il mediatore (Corte di Cassazione, sez. 6 penale, sentenza del 11/07/2013, n. 29789).
TRA MILLANTATO CREDITO E
CORRUZIONE
Il reato di traffico di influenze si pone a metà strada tra il reato di millantato credito ed il reato di corruzione. Dal primo,
infatti, si differenzia perché le relazioni con il pubblico ufficiale, utili ai
fini che abbiamo detto sopra, sono effettivamente
esistenti e non solo vantate. Dal secondo si differenzia perché, pur
consistendo in un comportamento
propedeutico alla commissione di un’eventuale corruzione (come sopra
delineato), il reato in questione è caratterizzato dal fatto che il denaro o
l’utilità patrimoniale sono rivolti solo a chi è chiamato ad esercitare
l’influenza sul pubblico ufficiale o sull’incaricato di pubblico servizio
sfruttandone la relazione esistente, e non al soggetto che esercita la pubblica
funzione. Infatti, il prezzo o l’utilità richiesti nel reato in esame sono
finalizzati a retribuire soltanto l’opera di mediazione, non potendo, quindi,
essere destinato, neppure in parte, all’agente pubblico (Corte di Cassazione, Sez. 6 penale, sentenza del 27/01/2017, n. 4113).
Avvocato
Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente Parlando