lunedì 9 marzo 2015

PROCESSO TELEMATICO: TRA SOGNO E REALTÀ


Chi di voi negli ultimi tempi non ha sentito parlare di processo civile telematico? Penso e credo un po’ tutti. Non si tratta di un nuovo processo ma semplicemente della digitalizzazione di quello vecchio per consentire a tutte le parti coinvolte nel sistema giudiziario civile la produzione, il deposito, la notifica, e la consultazione dei documenti giudiziari in formato elettronico attraverso strumenti telematici. Un passaggio difficile che ha comportato, e ancora comporta, un dispendio di energie e risorse davvero imponenti (anche economiche) per l’indispensabile formazione degli addetti e per la necessità di modernizzare gli strumenti. Ancora una volta, tuttavia, le istituzioni italiane, cronicamente malate di pachidermia, hanno fatto il passo più lungo della gamba affidando così alla buona volontà degli addetti ai lavori, nella specie avvocati e collaboratori, le deficienze strumentali e formative degli uffici e dei funzionari pubblici. Una recente sentenza del Tribunale di Milano è l’esempio lampante di come, ancora una volta, le istituzioni non siano state capaci di realizzare appieno il progetto di riforma tanto conclamato e acclamato a scapito degli utenti, ovvero dei cittadini. Vediamo in che modo… 

IL CASO IN SINTESI Con la decisione richiamata una parte processuale, insieme al rigetto della propria domanda, è stata condannata, per responsabilità aggravata non avendo la stessa provveduto a depositare, nel fascicolo presente in Tribunale, in forma cartacea (o analogica), la copia cortesia dell’ultima memoria difensiva, oltre a quella già depositata in forma telematica, così come prescritto dalle recenti riforme. Tale mancanza, dunque, ad opinione dell’organo giudicante, avrebbe reso più gravoso per il Collegio l’esame delle difese, ragione sufficiente a fondare una condanna ai sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile, vale a dire una vera e propria condanna punitiva. Cerchiamo allora di capire la portata della pronuncia in commento e soprattutto se la stessa può essere condivisa.

COSA SIGNIFICA RESPONSABILITÀ AGGRAVATA L’articolo 96 del codice di procedura civile, peraltro già oggetto di approfondimenti qualche tempo fa, al terzo comma dispone che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91 (Condanna alle spese), il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. In altre parole tale norma, introdotta recentemente dalla Legge n. 69/2009, non ha natura meramente risarcitoria, bensì sanzionatoria, avendo tale normativa introdotto nell’ordinamento italiano una forma di danno punitivo diretto a scoraggiare l’abuso del processo e degli strumenti forniti dalla legge alle parti. Il Legislatore, infatti, mediante tale disposizione, si è attivato al fine di colpire l’utilizzo abusivo della giurisdizione statuale per la soluzione dei conflitti, in modo da garantirne, in caso di lite pendente, una rapida decisione, scevra da comportamenti dilatori, sleali e scorretti. L’articolo in sé, infatti, rappresenta un’apprezzabilissima novità, nonostante la formulazione non esaustiva, anche dal punto di vista etico, poiché consente al giudice di condannare la parte al pagamento di una somma di denaro, valutabile equitativamente, dunque monetizzabile, laddove nel processo emerga che la medesima parte abbia agito, o resistito, con la consapevolezza di arrecare un danno alla controparte, (Tribunale di Milano, Sezione II civile, Sentenza del 15 Gennaio 2015, n. 534).

PROCESSO TELEMATICO: FARSA O REALTÀ? Chiarita la portata dell’articolo 96, ovviamente in modo semplificato e comprensibile soprattutto alla luce della complessità della materia, attualmente oggetto di contrasto sia in dottrina che in giurisprudenza, non posso esimermi dall’esprimere il mio totale disappunto in relazione alla sentenza in commento, a mio modesto parere inaccettabile, ingiustificata ed ingiustificabile. Sfugge alla mia comprensione come sia mai possibile che l’omesso deposito della copia cartacea di un atto processuale, denominata anche copia cortesia ad uso esclusivo dell’organo giudicante, peraltro correttamente depositata in via telematica, possa rendere “più gravoso per il collegio esaminare le difese”, tanto da indurre il medesimo ad una condanna, nei confronti della parte per così dire inadempiente, al pagamento della somma di ben 5.000 euro per responsabilità aggravata ex art. 96 del codice di procedura civile. Ciò che più lascia basiti, rendendo totalmente incomprensibile la decisione del Tribunale di Milano, è l’attuale vigenza dell’obbligo, stabilito dalla legge, a rigore del quale, a far data dal 30 giugno 2014 per i procedimenti instaurati dalla data medesima e a partire dal 31 dicembre 2014 anche per i procedimenti già pendenti alla data del 30 giugno 2014, i difensori devono depositare esclusivamente in telematico tutti gli atti che riguardano il processo, quali ad esempio le memorie difensive. Inoltre, come se ciò non bastasse, mi pare opportuno evidenziare il fatto che, ad oggi, non vi sia alcuna norma di legge che disponga ed obblighi il difensore a depositare anche lo stesso atto in forma cartacea. 

LA LEGGE “VALE” DI PIÙ DI UN PROTOCOLLO D’INTESA Lungi da me voler tediare i lettori con noiose riflessioni sulla gerarchia delle fonti del diritto, evidentemente ignote persino a chi lo applica concretamente, tengo solo a precisare che quella che viene definita, copia cortesia, non essendo prevista da alcuna legge, non è obbligatoria, dunque il fatto che il deposito della stessa sia previsto, a titolo di mera cortesia appunto, dal Protocollo siglato nel giugno scorso dal Tribunale di Milano e l’Ordine degli Avvocati di Milano non può, in alcun modo, fondare una responsabilità, tanto più se aggravata, tale da condannare la parte al pagamento di una somma di denaro, nel caso di specie nemmeno irrisoria (oltre al danno, dunque, anche la beffa!). Il Protocollo citato, tra l’altro, sul punto non prevede nessuna conseguenza in caso di inosservanza. Siamo di fronte, purtroppo, ad un esempio di giustizia creativa decisamente criticabile, soprattutto se si pensa all’orientamento giurisprudenziale recente in materia di processo telematico, il quale, pressoché in modo unanime, ha sistematicamente affermato l’irricevibilità o l’inammissibilità del deposito telematico di atti introduttivi il processo, stante l’assenza di valore legale dei decreti emessi in materia, ex art. 35 del DM 44/11, dalla Direzione Generale Servizi Informativi Automatizzati (DGSIA), essendo tali provvedimenti riferiti ad un potere che DGSIA per legge non ha e non ha mai avuto, ossia quello di indicare, nei detti decreti, sia l’elenco degli atti depositabili telematicamente sia i procedimenti in cui tali atti possono essere depositati.  


LA GIUSTIZIA ALL’ITALIANA… nonostante le innumerevoli riforme che si sono succedute negli anni, più o meno rivoluzionarie, quella del processo telematico, ovvero in formato digitale, resta una realtà caratterizzata da grandi problematiche, difficili da risolvere soprattutto a causa della totale assenza di una seppur minima visione sistematica dell’ordinamento giuridico, di fatto interpretato ed applicato autonomamente in ogni Foro d’Italia. Sarebbe stato utile, in particolare con riguardo al caso di specie, che il Legislatore, quanto meno per un primo periodo di rodaggio dell’intero sistema, inserisse nell’ormai famigerato Decreto Legge n. 90/2014 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari) una norma, neppure troppo articolata, con la quale stabilire l’obbligo, in capo al difensore, di effettuare non solo il deposito telematico degli atti processuali, ma anche di replicare tale deposito mediante la consegna cartacea in cancelleria di copie di cortesia. Il processo telematico, dunque, introdotto nel terzo millennio, ovvero nell’era del digitale, pensato per velocizzare i tempi della giustizia ed ottimizzare i costi, pare proprio che fatichi a decollare soprattutto per la mentalità retrograda di alcuni operatori del diritto. È necessario, quindi, un cambio radicale di approccio e di apertura che presuppone ed abbisogna, sia tra gli avvocati sia soprattutto tra i magistrati di un grande sforzo finalizzato al superamento della tradizione. Insomma una sentenza di tal fatta, le cui conseguenze ricadono peraltro su una delle parti del processo, ignara di queste logiche per così dire estranee al merito della controversia, non può che essere criticata e avversata tanto più se scritta da soggetti che non riescono e non vogliono fare a meno della carta e che, dunque, meritano a gran voce l’appellativo di “Toghe analogiche”.

Dottoressa Roberta Bonazzoli - Studio Legale Comite