Scott W. Atlas "Power to the patient" (2005) |
Giusto per non dimenticarci uno dei temi di maggiore interesse, ovvero quello della responsabilità dei camici bianchi che, nello svolgimento del loro lavoro, commettono errori colpevoli, ritengo doveroso portare all’attenzione dei miei lettori, una recentissima sentenza della Corte di Cassazione la quale ha riconfermato, con apprezzabile procedimento logico, le regole che i pazienti danneggiati o, nei casi più sventurati, i loro familiari devono conoscere relativamente agli obblighi processuali che gravano su di loro al fine di supportare adeguatamente le loro richiesta di risarcimento. In primo luogo credo sia utile chiarire un aspetto che spesso non viene considerato. Nel momento in cui un paziente si reca o viene trasferito in un pronto soccorso stabilisce un “contatto sociale” con l’ente o l’azienda ospedaliera, che deve essere considerato un vero e proprio “contratto di spedalità” tra paziente e medico. Veniamo dunque alla citata sentenza la quale, in sintesi, ha ribadito che…
…“In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante” (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 12 settembre 2013, n.20904).
Cosa significa? E’ molto semplice: è ormai orientamento giurisprudenziale consolidato quello di attribuire natura contrattuale alla prestazione medica pur mancando una vera e propria stipulazione diretta fra medico/struttura sanitaria e paziente, essendo sufficiente il semplice “contatto” tra le parti affinché i primi assumano quel generale obbligo di garanzia della salute del paziente (al riguardo v. anche Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza dell’11 gennaio 2008, n. 577; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 19 aprile 2006, n. 9085; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 29 settembre 2004, n. 19564; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 21 giugno 2004, n. 11488; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 22 gennaio 1999, n. 589).
Il “contatto” anzi assume una duplice valenza in quanto impegna sia il medico sia la struttura sanitaria da cui lo stesso dipende o con la quale collabora che può essere chiamata a rispondere, unitamente allo stesso, per la violazione della diligenza richiesta nel trattamento sanitario (Cassazione Civile, Sezione II, Sentenza del 25 febbraio 2005, n. 4058). In virtù di tale natura contrattuale al paziente, vittima di errore medico, è sufficiente provare il contratto (c.d. contatto) e l’aggravamento della sua situazione patologica o l’insorgenza di altre patologie nonché il nesso fra condotta attiva od omissiva ed evento (ovvero quali siano state le modalità di esecuzione inidonee), restando a carico del medico e/o della struttura sanitaria la prova di aver agito in modo diligente e che gli esiti infausti sono da attribuire a fattori imprevisti ed imprevedibili (oltre alla sentenza in esame, in senso analogo si sono espresse Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 9 ottobre 2012, n. 17143; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 19 aprile 2006, n. 9085; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 23 giugno 2005, n. 22894; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 21 giugno 2004, n. 11488).
Il sistema della responsabilità medica è dunque improntato a quel generale principio di favore per il creditore-danneggiato (paziente) cui l’ordinamento giuridico è improntato. In ogni caso di insuccesso incombe, dunque, al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione oppure, laddove trattasi di intervento semplice o routinario, dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile, e non superabile con l’adeguata diligenza, che lo stesso ha impedito di ottenere. Medico e struttura dovranno dunque provare che il risultato anomalo o anormale dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto.
Tale regola si fonda sul principio della c.d. vicinanza alla prova o principio di riferibilità (v. Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 9 ottobre 2012, n. 17143; Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza del 9 novembre 2006, n. 23918; Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza del 30 ottobre 2001, n. 13533; Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza del 23 maggio 2001, n. 7027), secondo cui è il debitore ad avere maggiore possibilità di fornire la prova essendo nella sua stretta disponibilità, tanto più quando l’esecuzione della prestazione consiste nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza e viceversa proprie del bagaglio del debitore come accade per l’appunto nello svolgimento della professione medica.
Laddove medico e struttura non riuscissero a fornire tale prova, secondo le regole su enunciate dedotte dagli articoli 1218 e 2697 del codice civile, saranno soccombenti.
Ancora una precisazione: recentemente la giurisprudenza ha inoltre stabilito che in tema di onere della prova ed in particolare del nesso di causalità tra evento e danno dovrà valere il c.d. principio della probabilità relativa ovvero del “più probabile che non”, di fatto facendo riferimento alla preponderanza dell’evidenza (Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenze dell’11 gennaio 2008, n. 576 e 581). Nella valutazione ed esame del nesso causale fra condotta del sanitario, omissiva o commissiva, si farà quindi riferimento non ad elementi rigorosamente statistici ma a logiche di tipo probabilistico (c.d. principio logico o baconiano).
Il caso esaminato dai giudici si riferisce ad un paziente che, recatosi più volte in ospedale in un lasso di tempo breve, riferendo di essere stato vittima di un trauma accidentale al fianco sinistro veniva ripetutamente trattato con semplice prescrizione di antidolorifici. Solo dopo diversi accessi, a seguito del peggioramento delle condizioni di salute del paziente, i medici avevano esteso i controlli dalla zona inguinale e addominale alla coscia, rilevando una lesione nevrotica del diametro di 4 cm alla faccia mediale della coscia sinistra e la presenza di una scheggia di legno di 4 cm. Raggiunto uno stato settico non dominabile, il paziente era stato inviato al reparto malattie infettive, dove gli veniva diagnosticata una fascite necrotizzante che lo ha portato alla morte.
La Corte ha quindi giustamente stabilito che “Una volta iniziato il rapporto curativo, la ricerca della situazione effettivamente esistente in capo al paziente, almeno per quanto attiene alle evidenze del suo stato psico-fisico, è affidata al sanitario, che deve condurla in modo pieno e senza fidarsi dell'indirizzo che può avergli suggerito la dichiarazione resa in sede di anamnesi dal paziente, integrando, un diverso operare, una mancanza palese di diligenza, con la conseguenza che deve escludersi che l'incompletezza o reticenza sotto il profilo indicato delle informazioni sulle sue condizioni psico-fisiche, se queste sono accertate tali dal sanitario e/o dalla struttura attraverso l'esecuzione accurata secondo la lex artis della prestazione iniziale del rapporto curativo, non può essere considerata ragione giustificativa per l'applicazione della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c.”. E ancora “Allo stesso modo incombeva sulla struttura sanitaria la dimostrazione che in realtà l'esito finale si era verificato perché nessun rapporto curativo avrebbe potuto impedirlo, avuto riguardo alla situazione del paziente all'atto in cui il rapporto curativo era iniziato, circostanza che sarebbe equivalsa a dimostrare che nessun inadempimento del dovere di prestazione del fare curativo vi era stato e che, in conseguenza avrebbe assorbito lo stesso problema del nesso causale”.
La pronuncia ha dunque giustamente ribaltato il giudizio di merito sull’assoluzione dei medici della struttura ospedaliera in cui era avvenuta la morte del paziente.