martedì 8 gennaio 2013

RIVOLUZIONE COPERNICANA IN ATTO: NEONATI RISARCITI SE NATI CON MALFORMAZIONI NON DIAGNOSTICATE


Con una recente sentenza di 76 pagine la III Sezione civile della Corte di Cassazione ha riconosciuto, per la prima volta direttamente in capo al neonato affetto da malformazione o da sindrome genetica non puntualmente diagnosticata, il diritto a chiedere il risarcimento del danno per essere nato malformato. 


Il commento dell'avvocato Patrizia Comite
Con sentenza 16754 del 2 ottobre 2012, la Corte di cassazione innova il precedente indirizzo giurisprudenziale in tema di “wrongful life”, sollevando problemi etici e alimentando il dibattito dottrinale circa l’esistenza o meno, nel nostro ordinamento, di un “diritto a non nascere se non sano”.

Nel caso di specie, la Suprema Corte riconosce la responsabilità sanitaria del ginecologo per violazione dell’obbligo di informazione e, per la prima volta, estende il diritto al risarcimento del danno sofferto dalla madre, per non essersi potuta autodeterminare liberamente richiedendo l’applicazione della legge 194/1978, allo stesso individuo nato affetto da patologia genetica, nonché ai fratelli e alle sorelle del neonato.


Lo specialista infatti, a fronte di esplicite richieste di indagine circa la salute del feto, prospettata quale condicio sine qua non per la prosecuzione della gravidanza, sottoponeva la gestante unicamente al Tritest, senza informarla della debolezza statistica di tale esame diagnostico, e ometteva altresì di prescrivere accertamenti ulteriori, più specifici, quali amniocentesi e villocentesi, al fine di escludere, con maggiore certezza, possibili alterazioni cromosomiche del nascituro.


Tale condotta configura, ad avviso della Corte, “inadempimento alla richiesta di diagnosi, funzionale all’interruzione di gravidanza, alla luce dell’altissimo margine di errore che il test selezionato dal ginecologo offriva nella specie (margine pari al 40% dei cd. “falsi negativi”), onde il suo carattere, più che di vero e proprio esame diagnostico, di screening del tutto generico quanto alle probabilità di malformazione fetale”.


Si tratta di un inadempimento suscettibile di ledere i diritti inviolabili della persona: quelli della gestante, del padre, del bambino nato malformato e infine di eventuali fratelli o sorelle dello stesso. Questi ultimi infatti, per la Corte, “rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta”. Il danno da essi sofferto consiste, in particolare, “nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione”.


La pronuncia in oggetto si presenta innovativa e segna un vero e proprio revirement rispetto alla precedente giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità sanitaria, che riconosce il diritto al risarcimento del danno per omessa informazione o errore medico, nel caso di malformazioni del feto, unicamente ai genitori. Alla madre in quanto parte contrattuale, al padre in quanto terzo tutelato dal contratto.


La sentenza 14488/2004, in particolare, esclude una pretesa risarcitoria azionabile direttamente dal nascituro e chiarisce come il cd “diritto a nascere sani” abbia unicamente una portata positiva, nessuno possa cioè procurare al nascituro lesioni o malattie, mentre sia da espungere in toto una corrispondente interpretazione negativa, da cui desumere un diritto, in capo allo stesso nascituro, “di non nascere se non sano”.


L’ordinamento giuridico non riconosce infatti il cd aborto eugenetico, ma l’interruzione della gravidanza può praticarsi unicamente a scopo terapeutico, nei casi e alle condizioni cristallizzate dal Legislatore nella legge 194/1978. Qualora sia violato il diritto della madre di autodeterminarsi per l’aborto, a causa di una mancata o errata informazione da parte del medico circa la salute del feto, non può pertanto essere accordato al nascituro un autonomo risarcimento per quella “vita ingiusta”, patita in conseguenza del comportamento negligente del sanitario.


Seguendo la ricostruzione logica della Corte, non sembra dunque trovare cittadinanza, nel nostro ordinamento, un “diritto a non nascere se non sano”, come corollario del “diritto a nascere sano”. Si tratterebbe di un diritto senza padrone, un diritto che, secondo le parole della Corte “solo se viene violato, ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai quindi la possibilità di esercitarlo.”


Un diritto la cui lesione non può causare alcun danno per il nascituro: la vita infatti non è mai configurabile in termini di perdita, e dunque quale ipotesi di danno risarcibile ex art. 1223 c.c.. Come rileva efficacemente il Tribunale di Milano, sempre nel 2004, “tale aspetto non può costituire fonte di un danno risarcibile in un sistema quale quello delineato dalla nostra Carta Costituzionale, incentrato sulla tutela primaria della vita e sulla valorizzazione della nascita quale momento che attribuisce alla persona la capacità di essere soggetto giuridico autonomo.


Con sentenza 10741/2009, il giudice di legittimità modifica il precedente orientamento e apre un varco in tema di “wrongful life”, contemplando l’ammissibilità di un diritto al risarcimento, sotto il profilo della violazione del diritto alla salute, ex art. 32 della Costituzione, anche in capo al bambino nato con handicap. Un diritto azionabile iure proprio, ma unicamente nel caso in cui la malformazione sia cagionata dalla condotta colposa del medico.


Per ammettere un autonomo diritto al risarcimento in capo al nascituro, deve necessariamente intercorrere un nesso eziologico tra inadempimento del medico e handicap psico-fisico. Tale diritto non sussiste, invece, nel caso in cui il consenso informato circa il rischio di malformazioni per il feto sia funzionale unicamente all’interruzione della gravidanza, ai sensi della legge 194/1978.


La Corte opera dunque un importante distinguo tra malformazione di origine medica e malformazione di origine genetica: solo nel primo caso la condotta negligente del ginecologo – nella fattispecie, la mancata comunicazione alla gestante circa la pericolosità, per il feto, dei farmaci prescritti – spiega un contributo causale alla produzione dell’evento, cagionando un handicap a un bambino che altrimenti sarebbe nato sano. Al contrario, nel caso di patologie fetali genetiche, viene meno l’apporto causale del ginecologo all’evento dannoso, condizione necessaria, ex art. 1223 c.c., per la configurazione di un diritto al risarcimento anche in capo al nascituro.


Il difetto congenito, infatti, preesiste alla condotta omissiva posta in essere dal sanitario e l’handicap non sarebbe stato evitabile in alcun caso. Il corretto adempimento al dovere di informazione da parte del medico, ex ante, non avrebbe impedito la malformazione, ma unicamente consentito alla madre di esercitare il diritto di aborto, nei limiti stabiliti dalla legge 194/1978. L’alternativa, in questo secondo caso, non sarebbe pertanto tra “nascere sano o nascere malato”, ma tra “nascere malato e non nascere”, tra, cioè, una “vita con handicap” o una “non vita”.


Nessun dubbio, dunque, circa la violazione dell’obbligo di informazione da parte del medico e la lesione del diritto di autodeterminazione garantito dall’ordinamento alla gestante, ma la giurisprudenza non può spingersi fino a considerare l’esistenza in condizioni di handicap come una situazione peggiore rispetto alla non vita, tale da configurarsi come danno risarcibile ex art. 1223 c.c. per il nascituro. Sono profili che attengono alla bioetica, non immanenti al diritto.
Il “danno da procreazione” subisce tuttavia un’evoluzione, fino a degenerare nel c.d. “danno da vita indesiderata”, con la più recente pronuncia della Corte di cassazione che, pur nell’apprezzabile tentativo di accordare un ristoro patrimoniale autonomo allo stesso soggetto portatore di handicap, finisce per far ricadere gli effetti negativi della “vita malformata” del bambino unicamente sul ginecologo, tenuto a risarcire il nascituro anche nel caso, precedentemente escluso, di malformazioni genetiche.
Nella controversia in esame, l’oggetto del rapporto professionale medico-paziente consisteva, ad avviso della Corte, nell’accertamento “doppiamente funzionale alla diagnosi di malformazioni fetali e (condizionatamente al suo risultato positivo) all’esercizio del diritto di aborto”. La responsabilità a carico del medico deriva, pertanto, dalla “violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica”.
Da questo inadempimento, per la Corte, promana un diritto al risarcimento ulteriore, da estendersi, anche nei confronti del nascituro. La Suprema Corte sembra, prima facie, configurare una responsabilità sanitaria sui generis, che prescinde da un nesso causale tout court e da un danno in termini di perdita ex art. 1223 c.c., eludendo in tal modo i principi generali sanciti dal Legislatore in materia di risarcimento. In questo caso, il tentativo di individuare un fondamento giuridico alla responsabilità del ginecologo, per la nascita indesiderata, sembra infatti trascendere i principi dello strictum ius.
Secondo il ragionamento seguito dalla Corte, l’interesse giuridicamente protetto consiste “in una condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici dal Costituente”. In particolare, la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino trova fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione. “Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata – non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata.
La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva”, per la Corte, “da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso.”
La Corte, per dissolvere ogni equivoco circa la presunta esistenza di un “diritto a non nascere se non sano”, precisa che non si tratta “di non meritevolezza di vita handicappata, ma una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand’anche fossero genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il risarcimento ai più disparati fini.”
Per evitare di cadere in errore, ravvisando l’evento di danno nella stessa nascita indesiderata e legittimando così un inesistente “diritto a non nascere se non sano”, la Corte chiarisce come, nel caso di specie, il danno risarcibile sia costituito “dalla individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente.” Una condizione esistenziale che “consente ed impone al diritto di intervenire in termini risarcitori … affinché quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole.
Ciò che rileva è dunque la “futura vita handicappata intesa nella sua più ampia accezione funzionale di una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente”: questa la ratio intrinseca che spinge la Corte ad accordare un diritto di risarcimento autonomo in capo al nascituro.
Quanto al problema della causalità, la Corte sottolinea come, alla luce delle sentenze precedenti, non possa parlarsi di nesso eziologico né tra l’omissione di diagnosi e la nascita, perché la vita non può considerarsi mai evento dannoso, né tra la condotta omissiva e l’handicap in sé considerato, “atteso che la malformazione non è conseguenza dell’omissione bensì presupposto di natura genetica, rispetto al quale la condotta del sanitario è muta sul piano della rilevanza eziologica.”
Come viene risolto l’impasse logico? La Corte cerca un escamotage e lega l’evento dannoso (non la nascita, ma l’esistenza diversamente abile) all’omissione del medico, deducendo che “una condotta diligente e incolpevole avrebbe consentito alla donna di esercitare il suo diritto all’aborto.” La Corte parla espressamente di “equiparazione quoad effecta tra la fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’handicap, si badi, non la nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla sentenza 10741/2009) e l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante).”
La legittimazione attiva del nascituro deriva pertanto dal mancato esercizio del diritto di aborto, conseguente all’inadempimento, da parte del medico, dell’obbligo di informazione nei confronti della gestante. La condotta omissiva del ginecologo ha impedito alla madre di autodeterminarsi per l’aborto, e di tale violazione il medico è tenuto a rispondere anche nei confronti del nascituro, per la sua esistenza malformata.
La Corte rifiuta esplicitamente la configurabilità di un “diritto a non nascere se non sano”, ma implicitamente lo sottende. Cade infatti in un’inevitabile aporia concettuale, prima ancora che giuridica, estendendo le conseguenze pregiudizievoli della violazione del diritto di autodeterminazione della madre anche al figlio, per la sua stessa nascita indesiderata. La disabilità sembrerebbe pertanto assurgere a condizione che non merita di esistere, se suscettibile di fondare un’azione di risarcimento da parte del nascituro.
L’autonoma legittimazione ad agire riconosciuta all’individuo affetto da handicap, per il fatto di vivere, e prima ancora di essere nato, con una malformazione genetica, a causa della condotta omissiva del ginecologo (che ha impedito alla madre di autodeterminarsi per l’aborto), sembra sollevare profonde questioni etiche, oltre che giuridiche.
La sentenza della Suprema Corte provocherà, sine dubio, forti ripercussioni sul fronte medico e sullo stesso SSN: alla richiesta, da parte della gestante, di accertamenti per escludere malformazioni genetiche del feto, il ginecologo dovrà adempiere attraverso la prescrizione di esami specifici (e invasivi), unica condizione, alla luce della pronuncia in oggetto, per prevenire possibili azioni risarcitorie e garantire un puntuale rispetto del principio del consenso informato.
Pubblicato in Gedeon Richter