In ambito di responsabilità medica la giurisprudenza ha intrapreso la strada di una sempre più ampia tutela dei diritti del paziente, dove l’informazione, sia in ambito diagnostico che terapeutico, è divenuto un elemento integrante ed imprescindibile della prestazione sanitaria. Un caso di particolare interesse lo fornisce una recente pronuncia della Cassazione.
Nello specifico la paziente si sottoponeva, dopo un evento abortivo, ad una indagine ecografica che rivelava la presenza di una sacca liquida paraovarica. Il medico curante, diagnosticava "cisti paraovarica sinistra". Alle domande sulla tipologia e sui rischi dell’intervento consigliato dal medico curante (ostetrico – ginecologo) questi assicurò che lo stesso sarebbe stato eseguito efficacemente con una semplice laparoscopia presso una struttura ospedaliera.
La paziente si ricoverò pertanto presso un Ospedale romano con diagnosi, appunto, di "cisti paraovarica sinistra" e, senza nessuna ulteriore visita ed accertamento ecografico, venne sottoposta ad intervento operatorio. La paziente quindi prestava consenso all’intervento di laparoscopia. Tuttavia a causa di complicazioni evidenziatesi in sede endoscopica l'intervento si trasformò da laparoscopia in laparatomia e all'esito, il referto della cartella clinica riportava "laparotomia- viscerolisi- resezione ovarica bilaterale".
La determinazione di ricorrere all’intervento di laparotomia fu assunta in via del tutto discrezionale dal chirurgo per ragioni di ordine pratico per evitare alla paziente stessa di sottoporsi ad ulteriore anestesia. Il chirurgo pertanto non ritenne di interrompere l’operazione per procedere all’ottenimento di in nuovo consenso informato da parte della paziente benché per quest’ultima non si profilasse alcun rischio per la vita che giustificasse l’urgenza. E’ bene sottolineare che l’intervento in laparotomia venne comunque eseguito correttamente.
Senza voler ripercorrere la complessa vicenda giudiziaria conseguita qui si vuole mettere in evidenza i principi di diritto che hanno guidato la Suprema Corte ad emettere una pronuncia di condanna nei confronti del chirurgo. Va in primis sottolineato che l’orientamento della Cassazione secondo cui costituisce violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione (artt. 2, 3 e art. 32 Cost., comma 2) l'inadempimento da parte del sanitario dell'obbligo di richiedere il consenso informato al paziente nei casi previsti (S.U. n. 26972/08; Cass. n. 2847/10). Infatti, il diritto al consenso informato è un vero e proprio diritto della persona e trova fondamento non solo nel dettato costituzionale ma anche nell'art. 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con L. 28 marzo 2001, n. 145, nell'art. 3 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 ed ora giuridificata, nella L. 21 ottobre 2005, n. 219, 'art. 3 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati), nella L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 6 (Norme sulla procreazione medicalmente assistita), nella L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), oltre che nell'art. 30 del Codice deontologico, ma che soprattutto trova fondamento nell'a priori della dignità di ogni essere umano, che ha trovato consacrazione anche a livello internazionale nell'art. 1del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina del 12 gennaio 1998 n. 168.
Da queste previsioni normative emerge con forza il principio che il consenso informato svolge la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, al punto che deve essere ritenuto un cardine imprescindibile in tema di tutela della salute . Anche nel caso di specie la Suprema Corte ha osservato che “in virtù del diritto vivente" in altri termini, così come costituito dalle statuizioni costituzionali e da questa Corte, nonché dall'osmosi tra attività interpretativa, da un lato, e norme interne ed internazionali, dall'altro, per gli interventi sanitari sul paziente emerge l'obbligo dello Stato e delle sue istituzioni, tra cui il giudice, a mantenere al centro la dimensione della persona umana nella sua concreta esistenzialità, in quanto connaturata da dignità, che presiede ai diritti fondamentali, senza la quale tali diritti potrebbero essere suscettibili di essere soggetti a limiti da svilire ogni loro incisività e che costituisce valore assiologico che informa l'ordinamento giuridico nella sua totalità e, quindi, a maggior ragione ogni norma ordinaria”.
Nel caso di specie la paziente aveva manifestato il solo consenso ad un intervento di mera laparoscopia che si sarebbe sostanziata in una tecnica non invasiva. La laparotomia a cui venne sottoposta, invece, è un intervento completamente diverso dalla laparoscopia e consiste, in genere, nell'incidere l'addome per chiarire la causa di una malattia non diagnosticata o quando il chirurgo si trova a trattare una malattia nota, di cui altri esami non siano riusciti ad evidenziare la causa dei sintomi e dei segni che la malattia presenta.
Da questo assunto la Corte ha osservato che il chirurgo per legittimare la propria iniziativa di cambiare tecnica operatoria durante l'intervento, così come programmato ed assentito dalla paziente, era necessario che fosse intervenuto un fatto nuovo, imprevisto od imprevedibile, che avesse posto a repentaglio la vita del paziente stessa divenendo chirurgicamente indispensabile.
Pertanto anche in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano derivate conseguenze dannose, qualora tale intervento non sia stato preceduto da adeguata informazione (nel caso in esame addirittura inesistente informazione), l'inadempimento dell'obbligo di informazione assume una valenza causale sul danno o sui danni subiti dal paziente.
In ultima analisi – conclude la Corte – “tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza per escluderlo che l'intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che a causa del totale deficit di informazione il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, per cui nei suoi confronti, comunque, si consuma una lesione di quella dignità che connota nei momenti cruciali - la sofferenza fisica e/o psichica - la sua esistenza”.
(Cass.Civ. III sez. civ. 28.07.2011 n° 16543)
(Cass.Civ. III sez. civ. 28.07.2011 n° 16543)