La recente notizia di un singolare datore di lavoro che non solo non ha discriminato una donna al momento dell’assunzione per il suo status di gestante ma addirittura le ha garantito modalità di svolgimento dell’attività lavorativa consoni alla situazione, mi induce a tornare sull’argomento licenziamento per maternità. Sebbene nel nostro ordinamento giuridico esistano principi e norme che sanciscono la parità di genere, le donne purtroppo sono ancora oggetto di discriminazione, soprattutto nel mondo del lavoro e soprattutto se madri. Basti pensare alle disuguaglianze retributive e di carriera, all’inattuazione delle politiche di conciliazione maternità lavoro, ai casi di mobbing per maternità. Sul posto di lavoro, infatti, la maternità viene ancora percepita e gestita come un elemento invalidante e, quindi, penalizzante per la lavoratrice, che spesso viene indotta fino alle dimissioni pur di sottrarsi a condizioni di lavoro insensibili o indifferenti al suo stato o addirittura volutamente pregiudizievoli. Ecco perché fanno notizia sentenze che ribadiscono diritti e tutele che invece dovrebbero trovare naturale applicazione. Come quella del TAR del Lazio che in questi giorni ha dato ragione a una soldatessa esclusa perché incinta da un concorso della Guardia di Finanza o quella della Corte di Cassazione che ha chiarito quando si configura la colpa grave quale causa che giustifica il licenziamento della lavoratrice madre. Ed è su quest’ultima che ci soffermiamo…
IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI MADRI C’È Ai sensi dell’art. 54 del Decreto Legislativo n. 151/2001, il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del congedo di maternità e, poi, fino al compimento di un anno di età del bambino. Tale divieto generale di licenziamento, però, viene meno e non trova applicazione solo allorquando si configurino quei casi di esclusione previsti e tipizzati dalla norma medesima e cioè nel caso di:
- colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro
- cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine
- esito negativo della prova
COLPA GRAVE Nella vicenda all’esame della sentenza, la lavoratrice era stata licenziata per colpa grave. Infatti, secondo il datore di lavoro e secondi i primi due gradi di giudizio che non avevano accolto il ricorso della donna per la dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento, questa, essendosi assentata ingiustificatamente dall’attività lavorativa per un lungo periodo, aveva innanzi tutto posto in essere una condotta riconducibile ad un’ipotesi prevista dal contratto collettivo applicabile, che sanziona con il licenziamento per giusta causa l’assenza arbitraria dal servizio superiore a sessanta giorni lavorativi consecutivi. Ma non solo. Infatti, la condotta di persistente e ingiustificato rifiuto della prestazione appariva ancor più aggravata dal fatto che la lavoratrice, all’epoca in stato di gravidanza, non si fosse presentata neppure per rappresentare il suo stato e le proprie particolari esigenze personali e familiari. Ciò avrebbe integrato, pertanto, la tipica fattispecie della colpa grave stabilita dal richiamato art. 54 del decreto n. 151/2001, quale causa di esclusione del divieto di licenziamento.
MA NON SECONDO LA CORTE DI CASSAZIONE! Questa, infatti, non ha apprezzato affatto né condiviso la valutazione della fattispecie compiuta dal giudice di merito, che ha essenzialmente ridotto la colpa grave della lavoratrice (quale eccezionale causa legittimante la risoluzione del rapporto di lavoro) ad una ordinaria ipotesi prevista dal contratto collettivo. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la deroga al divieto di licenziamento, posta a tutela sia della maternità sia del diritto al lavoro, richiede una più attenta e specifica valutazione del caso che si analizza volta per volta. Richiamando un principio di diritto, espresso qualche anno fa dalla stessa Corte di Cassazione, i giudici hanno infatti ribadito che la colpa grave che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, ma è necessario verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla norma e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. E tale valutazione, perché sia a tal fine idonea ed esaustiva, deve estendersi fino ad un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi diversi componenti (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza del 26/01/2017, n. 2004; Corte di Cassazione, sentenza n. 19912/2011).
QUINDI, a fronte di eccezioni, ben enunciate e tipizzate, al divieto di licenziamento, non vi è corrispondentemente una tipica colpa grave configurabile. Infatti, la peculiarità di ogni caso concreto e il suo potenziale impatto sulla tutela costituzionale della maternità e dell’infanzia, richiedono un adeguato rigore valutativo ed un’indagine estesa, articolata e complessa, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto, è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo nella sua esistenza, con possibili ripercussioni su piani diversi ed eventualmente concorrenti (personale e psicologico, familiare, organizzativo). Al giudice di merito, quindi, l’ardua sentenza.
Avvocato Gabriella Sparano – Redazione Giuridicamente parlando