Si sente spesso discutere sulla laicità del nostro paese, dibattito che ha coinvolto sia la nostra giurisprudenza, sia quella europea ma che non si è ancora definitivamente risolto. Si registra, infatti, un orientamento che adotta soluzioni differenti a seconda della singola questione e del singolo organo giudicante. Molteplici i casi da citare. In primo luogo, la nota vicenda del crocifisso intorno a cui si è discusso se sia corretto togliere tale simbolo dalle aule scolastiche e da tutti gli edifici pubblici. A novembre dello scorso anno, poi, la Corte EDU si è pronunciata su un ricorso presentato da una cittadina francese licenziata per aver rifiutato di non indossare il velo durante l’orario di lavoro. In ultimo, il T.A.R. emiliano si è occupato del caso di una scuola che aveva aperto le proprie porte per le benedizioni pasquali, ossia un rito cattolico. Questi sono solo alcuni esempi di una questione che ingloba diversi aspetti del nostro ordinamento, giuridici ed etici e a cui è difficile fornire una netta soluzione. L’obiettivo di questo post è solo quello di darvi qualche spunto giuridico, così da poter meglio rappresentarvi le due facce della stessa medaglia. Vediamo insieme…
RAPPORTI STATO CHIESA: DAL 1848 AL 1929… Con lo Statuto Albertino e con l’Unità d’Italia, la religione cristiana – cattolica aveva un forte peso nel nostro Paese. L’art 1 dell’allora Carta fondamentale sanciva infatti che: “la Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola Religione di Stato, gli altri culti sono tollerati conformemente alla leggi”. Ciò significa che il nostro Stato si qualificava come confessionale, ossia come un ordinamento con una propria religione imposta e professata in tutto il territorio. Gli altri culti, così come recita la norma sopra riportata, erano meramente tollerati a condizione che gli stessi fossero praticati nel rispetto dello Statuto stesso. Era come se esistesse una religione di serie A (quella cattolica) e una di serie B (tutte le altre) e ciò lo si poteva notare anche nel rapporto tra lo Stato e questi altri culti. Infatti, l’atteggiamento del nostro Paese verso le confessioni acattoliche era di sopportare la loro esistenza, senza però incoraggiarne l’esercizio. Negli anni successivi, la situazione in parte mutò a favore di un più ampio pluralismo confessionale e nel 1871, con la legge delle Guarentigie Pontificie, da un lato Roma da città della Chiesa divenne città dell’Italia, dall’altro si affermò la piena libertà di discussione in materia religiosa. A conferma di ciò, il codice penale del 1889 abolì la categoria dei reati contro la religione e attribuì le stesse tutele ai diversi culti presenti nel nostro territorio.
…E DAL 1929 AL 1948 Nel febbraio del 1929, durante il periodo fascista, furono stipulati i Patti lateranensi tra il Regno d’Italia e la Santa Sede con i quali si ritornò ad uno stato confessionale, richiamando l’art. 1 dello Statuto Albertino, e si diede nuovamente un posto privilegiato alla Chiesa Cattolica. Nello stesso anno fu emanata la Legge n. 1159 ove si disciplinò l’esercizio dei culti “ammessi” nel nostro Stato, purché conformi alle leggi del nostro ordinamento (nella sostanza però nulla era mutato poiché questi erano nuovamente meramente tollerati). Nel 1930, con il codice penale Rocco, si ribadirono tali principi e furono previsti una serie di reati con i quali si tutelava maggiormente la confessione cattolica rispetto alle altre religioni. Fino al 1948, anno in cui è entrata in vigore la Costituzione, il nostro Stato era dunque “confessionale” poiché imponeva, più o meno velatamente, l’esercizio della religione cattolica.
LA CARTA COSTITUZIONALE Con la caduta del fascismo, il sentimento comune era quello di creare un ordinamento ispirato ai principi di uguaglianza e democrazia e ciò fu codificato all’interno della Costituzione del 1948. Ebbene, non troviamo un articolo che espressamente sancisce il principio di laicità, ma vi sono molteplici norme che garantiscono il pluralismo religioso e l’uguaglianza di tutti i culti nel nostro Paese. In tutta la Costituzione, infatti, è manifesta la volontà di garantire a tutti i cittadini il diritto di scegliere liberamente quale confessione religiosa professare e di attribuire a queste ultime una propria autonomia nella loro organizzazione, ponendosi lo Stato sempre come un interlocutore alla pari che non fa alcuna distinzione nei suoi rapporti con i diversi culti.
IL PRINCIPIO DI LAICITÀ Come appena detto, nella nostra Carta fondamentale non troviamo codificato il principio di laicità, presente invece in molte sentenze della Corte Costituzionale sin dagli anni ‘80. Per la giurisprudenza “laicità” non equivale a totale indifferenza dello Stato nei confronti di tutte le religioni, bensì sua imparzialità necessaria per garantire la libertà di religione in un regime pluralista come deve qualificarsi il nostro. Anche nei testi sovra nazionali tale principio non è espressamente sancito, ma vi sono diverse norme che prevedono regole ad esso strettamente connesse. Ad esempio l’art 9 della Convenzione Europea dei diritti e delle libertà fondamentali garantisce il diritto a manifestare liberamente il proprio credo religioso. Tanto nel nostro ordinamento, quanto nel diritto europeo tale libertà però non è assoluta perché proprio dal principio di laicità e dal conseguente atteggiamento che ogni Stato deve avere nei confronti del singolo culto, deriva che questi ultimi non possano essere in contrasto con il singolo ordinamento giuridico. Secondo la Corte Costituzionale, inoltre, il principio di laicità avrebbe un “nucleo duro” ossia una serie di corollari necessari per la nostra forma di Stato e, pertanto, qualificabili come principi inviolabili, supremi e costituzionalmente rilevanti. Tra di essi vi sono sia il divieto di istituire una religione dello Stato, sia il dovere di offrire pari protezione alle diverse confessioni. Teniamo a mente i termini “imparzialità” e “neutralità” perché su di essi si articolano le diverse questioni menzionate nell’introduzione a tale post, che vado ora ad analizzare. (Corte Costituzionale sentenza n. 203/1989).
LA VICENDA DEL CROCIFISSO Molteplici provvedimenti sanciscono l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche: ad esempio nel 1924 un regio decreto imponeva la presenza, in ogni aula, del crocifisso e il ritratto del re; più recentemente, stesso obbligo è presente in alcune circolari degli anni ’80 e direttive del 2002. Ma tali provvedimenti di rango (ossia importanza e, conseguentemente, vincolatività per il cittadino) inferiore alla Costituzione sono compatibili con il principio di laicità? In altre parole, l’obbligo di esporre il crocifisso, simbolo per eccellenza della religione cattolica, in luoghi pubblici è compatibile con il dovere di neutralità e imparzialità dello Stato nei confronti di tutti i culti? La nostra giurisprudenza ritiene che tale estensione non sia in contrasto con i principi cardine del nostro ordinamento, in quanto il crocifisso più che simbolo religioso andrebbe inteso quale espressione della storia e della cultura italiana, nonché manifestazione dei principi di libertà e tolleranza. Secondo tale tesi, la croce sarebbe emblema della vita civile e laica del nostro Stato. Sul versante europeo, la Corte EDU in un primo momento aveva negato sia la neutralità religiosa del crocifisso e sia la non imparzialità dell’obbligo di esposizione dello stesso. Successivamente, però, la Grande Camera della stessa Corte (un po’ la nostra Corte Costituzionale), ribaltò l’orientamento precedente affermando che il crocifisso è un simbolo passivo, neutrale non in contrasto con il principio di laicità e gli altri ad esso connessi in quanto non in grado di influire sulla scelta della confessione da professare (Corte EDU sentenza del 3 novembre 2009; Grande Chambre sentenza del 18 marzo 2011).
VELO SÌ O VELO NO? Merita menzione, altresì, una recente decisione della Corte EDU sempre in tema di laicità dello Stato ed esercizio della propria confessione religiosa. Una cittadina francese, di religione musulmana, era stata licenziata dall’ospedale pubblico in cui lavorava in quanto si era rifiutata di non indossare il velo mentre prestava servizio; tale provvedimento, ad avviso della donna, era in contrasto con il suo diritto di manifestare e professare il proprio culto in ogni ambito e contesto. La Corte EDU è però di diverso avviso e ciò perché portare il velo in luoghi pubblici, ove è possibile incontrare persone appartenenti a diversi culti, sarebbe in contrasto con il dovere dello Stato di essere neutrale e imparziale verso tutte le confessioni religiose e, conseguentemente, con il compito proprio di ciascun paese di garantire e tutelare l’esercizio delle stesse. In altre parole, non solo la libertà di religione della ricorrente ma, altresì, quella di tutti i pazienti ricoverati in quell’ospedale merita di essere rispettata e protetta. Forse questa pronuncia potrà aprire la strada a un nuovo orientamento della giurisprudenza comunitaria e nazionale, così da definire una volta per tutte il principio di laicità e le sue implicazioni (Corte EDU 26.11.2015 n. 64846/11).
…E LE BENEDIZIONI PASQUALI? Tale rito religioso è al centro di una recente decisione del T.A.R. dell’Emilia Romagna, originata dal ricorso presentato da un’associazione il cui scopo ultimo è quello di salvaguardare la liceità e aconfessionalità della scuola pubblica. In particolare, il Consiglio di Istituto di una scuola pubblica di Bologna aveva autorizzato l’uso dei propri locali per la celebrazione, in orario extra scolastico, delle benedizioni pasquali. Tale provvedimento aveva generato critiche da parte dell’associazione in quanto tale rito non rientrerebbe nelle attività scolastiche previste dalla legge, né in quelle integrative e, inoltre, la sua celebrazione nell’istituto avrebbe avuto, a dire dell’associazione, quale effetto quello di accostare la scuola al cattolicesimo, ledendo così il principio di laicità presente nel nostro Stato. I giudici amministrativi, esaminato il ricorso dell’associazione in questione, hanno ritenuto di accoglierlo e contestualmente fissare alcune regole generali che dovrebbero essere rispettate da qualsiasi istituto scolastico. In pratica, i giudici amministrativi hanno ribadito che la scuola ben può essere un luogo in cui organizzare incontri per discutere anche su temi religiosi, così da creare un dibattito sugli stessi in condizioni di neutralità e imparzialità. Tuttavia i locali scolastici non possono essere impiegati per la celebrazione di un rito religioso e ciò in quanto questi ultimi attengono alla sfera individuale e intima della singola persona, totalmente estranea al carattere pubblico di tali luoghi. Sulla base di tale ragionamento, il T.A.R. ha accolto il ricorso e ha annullato il provvedimento del Consiglio di Istituto (T.A.R. Emilia Romagna, Sentenza del 09.02.2016, n. 166).
IN CONCLUSIONE Tutti gli esempi sopra riportati e molti altri che occupano, ormai da molti anni, le pagine dei nostri giornali, dimostrano come il nostro paese sia in un perenne conflitto. Se da un lato, infatti, la nostra legislazione sembra essere ispirata ai principi di laicità e eguaglianza di tutte le confessioni religione, dall’altro la nostra cultura costringerebbe a ritenere prevalente la religione cattolica in quanto maggiormente confessata.
Avvocato Licia Vulnera – Redazione Giuridicamente Parlando