mercoledì 17 febbraio 2016

PUBBLICI ESERCIZI: SI PUÒ VIETARE L’INGRESSO AI BAMBINI NEI RISTORANTI?


Lo ammetto, posta così, la domanda può sembrare strana e incomprensibile. Eppure è quello che è accaduto qualche giorno fa in un noto ristorante romano, il cui titolare con un cartello affisso alla porta del locale ha vietato l’ingresso ai bambini al di sotto dei 5 anni oltre che ai passeggini e ai seggioloni. Il motivo? La generale maleducazione dei bambini e la mancanza di spazio per ospitare gli ingombranti trasportini. La notizia mi ha molto incuriosita non solo in quanto mamma e, quindi, potenziale persona indirettamente non gradita in locali del genere, ma anche in quanto giurista, chiedendomi se simili divieti siano legittimi. Così, approfondendo l’argomento, mi sono resa conto che questo non è il primo caso, ma che anzi anche in Italia si sta diffondendo la moda nata negli USA dei locali cosiddetti No Kids, cioè ristoranti, hotel, persino pasticcerie, vietati ai bambini al di sotto di una certa età. Una moda che ha diviso l’opinione pubblica, tra chi, ritenendo che i gestori abbiano tutto il diritto di selezionare i loro ospiti, l’ha accolta favorevolmente, e chi, scandalizzandosi per gli effetti tendenzialmente discriminatori, la respinge.


SULL’ARGOMENTO NON ESISTE UNA SPECIFICA GIURISPRUDENZA che possa venirci incontro. Certo, il buon senso ci induce a non vedere di buon occhio simili divieti che, di fatto, penalizzando e discriminando le famiglie con bambini piccoli, suonano alquanto strani in una società, come la nostra, che dovrebbe invece sostenere le famiglie ed incoraggiarne la formazione per invertire la tendenza negativa del calo delle nascite, che ha concepito le sale riservate per i fumatori e nella quale la legge sostanzialmente dice che finanche gli animali di affezione (cani, gatti e non solo) possono entrare in qualunque luogo pubblico o esercizio pubblico (uffici pubblici, ristoranti, mezzi di trasporto, in alcuni casi anche ospedali e strutture sanitarie, spiagge), salve specifiche norme locali e salvo che non venga segnalato il divieto con apposito cartello (Decreto del Presidente della Repubblica n. 320/1954, Legge n. 281/1991). Per assurdo, quindi, nel locale in questione potrebbero entrare gli animali ma non i bambini! E inoltre, se ne accettassimo per buona la motivazione del divieto (fastidio per il resto della clientela e mancanza di spazio), potremmo per assurdo ritrovarci un giorno di fronte a locali di fatto vietati a disabili in carrozzella o con disabilità e condizioni fisiche non in linea con il target della clientela. 

PER LA NOSTRA COSTITUZIONE PERÒ SIAMO TUTTI UGUALI e l’articolo 3 della costituzione dice che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, e che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. L’età di una persona (come anche l’handicap) è proprio una di quelle condizioni personali che il principio di eguaglianza costituzionale riconosce e tutela sia sotto il profilo formale sia sotto il profilo sostanziale, con la conseguenza che eventuali disparità di trattamento sono ammissibili e consentite solo quando le differenze sono stabilite dal legislatore in modo ragionevole ed obiettivo e per la tutela di un interesse superiore. 

E IL REGOLAMENTO SUI PUBBLICI ESERCIZI DICE CHE… Nel nostro caso, la normativa di riferimento è Il Regio Decreto n. 635/1940 ossia il Regolamento di attuazione del TULPS, il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza n. 773/1931. Sul presupposto che sono pubblici esercizi i locali in cui si svolge un’attività imprenditoriale sottoposta a speciale autorizzazione di polizia ed in cui l’accesso è libero a chiunque, stabilisce che il significato del termine pubblico va inteso come condizione di fruibilità del locale e consistente appunto nella possibilità concreta per chiunque di accedervi liberamente e di poter usufruire dei servizi in esso erogati. Per questo motivo, distingue gli esercizi pubblici dai circoli privati e sanziona gli esercenti pubblici che rifiutano, senza un legittimo motivo, le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo, salvo quanto dispongono gli artt. 689 e 691 del codice penale (divieto di servire alcoolici a minori ed ubriachi). Ebbene, i ristoranti, in quanto locali di somministrazione di alimenti e bevande, rientrano nella categoria degli esercizi pubblici e ad essi, pertanto, si applicano la norma e la relativa sanzione appena ricordate, che sono tuttora pienamente valide nonostante negli anni la disciplina normativa abbia subito numerose modifiche. Oggi, infatti, l’autorizzazione amministrativa all’apertura di un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande è rilasciata dal Comune competente per territorio e non richiede più l’autorizzazione del Questore, alla quale era strettamente connessa proprio la previsione della sanzione in quanto derivante dalla speciale disciplina di polizia a cui gli esercizi erano sottoposti per tutelare la salute, l’incolumità e la sicurezza di coloro che vi entravano. Quindi, stando ancora così le cose, quali sono e quando ricorrono i motivi legittimi che limitano l’accesso a un esercizio pubblico? 

IL LEGITTIMO MOTIVO Tutto si gioca, dunque, su questo concetto che consente di estromettere dal pubblico esercizio l’avventore non gradito. Purtroppo, anche in questo caso non esiste giurisprudenza che possa fornirci un elenco dei possibili motivi legittimi o qualche indicazione. Tra l’altro, sull’argomento sussiste una certa confusione e una mancanza di chiarezza anche da parte delle stesse associazioni di categoria che talvolta, per giustificare certi episodi, tendono a parificare gli esercizi pubblici ai luoghi di privata dimora. Ma non è proprio così! L’art. 187, infatti, è inserito nell’apposito paragrafo che all’interno delle Regolamento n. 635/1940 si applica esclusivamente agli esercizi pubblici. Esso, pertanto, non può riferirsi alle attività di intrattenimento e svago (per esempio, le discoteche) che, esse sì, potrebbero essere parificate a luoghi di privata dimora, con la possibilità per i gestori di selezionarne discrezionalmente la clientela, come comunemente avviene ad esempio richiedendo un abbigliamento specifico. Se, quindi, non esiste una tipizzazione dei motivi legittimi, questi non possono che ricorrere caso per caso ogni qualvolta vadano tutelati gli interessi primari della pubblica sicurezza, dell’ordine pubblico e dell’igiene.

CONCLUDENDO pertanto, sembra che divieti come quello in questione siano quanto meno discutibili. D’altra parte, è impensabile, anche da un punto di vista meramente logico, che per qualche bambino maleducato passato per il ristorante se ne possa, indiscriminatamente, genericamente ed aprioristicamente, rifiutare l’intera categoria. Più corretto sarebbe mandare via gli avventori maleducati e molesti allorquando capitino (e non è detto che siano solo e sempre bambini). Così come sarebbe più logico e corretto rifiutare nuovi avventori solo quando il locale è già pieno, anche per la presenza di passeggini. Ma, è chiaro che stiamo ragionando in astratto, in quanto in concreto nulla impedirebbe ai ristoratori, pur in assenza di un cartello di divieto, di rifiutare l’ingresso a quanti non di loro gradimento, magari con il pretesto del locale già interamente prenotato. Alla fine, quindi, non ci resta che confidare in una maggiore maturità e correttezza sociale.


Avvocato Gabriella Sparano – Giuridicamente parlando